10 registi morti nel 2019

10. Jean Pierre Mocky (1933-FRA) nome d’arte di Jean-Paul Adam Mokiejewski, è stato un regista, sceneggiatore, attore, produttore cinematografico e montatore francese. Fu un cineasta molto prolifico, capace di girare anche tre film in un anno. Le sue pellicole sono spesso legate all’attualità e ad eventi dalla vena anarchica. Figlio di immigrati polacchi, iniziò la sua attività cinematografica come attore a 15 anni, recitando in Gli scocciatori, Dio ha bisogno degli uomini, Gli sbandati (1955) e La fossa dei disperati (1959). A 26 anni diresse il suo primo lungometraggio Dragatori di donne.

9. Ugo Gregoretti (1930-ITA) Entrò in Rai come impiegato nel 1953. Dopo aver esordito sul piccolo schermo con il documentario La Sicilia del Gattopardo (1960), con cui vinse il Prix Italia, si affermò quale arguto e ironico osservatore di costume con i suoi successivi lavori televisivi (da Controfagotto, 1961, a Il Circolo Pickwick, 1968, dalle serie parodistiche Romanzo popolare italiano, 1975, e Uova fatali, 1977, all’omaggio a Zavattini scrittore, 1982), mentre tra le sue opere cinematografiche si segnalano I nuovi angeli (1962), film-inchiesta sui giovani, l’apologo fantascientifico Omicron (1963), i due documentari Apollon, una fabbrica occupata (1969) e Contratto (1971) e l’autobiografico Maggio musicale (1990).

8. Jonas Mekas (1922-USA) Lituano, costretto dai nazisti a emigrare negli Stati Uniti dove ha preso la cittadinanzz, nel 1949 fu tra gli ideatori del movimento Underground newyorkese e nel 1955 fondò la rivista “Film culture” (destinata a promuovere l’idea di una nouvelle vague americana), intorno alla quale si sviluppò il New American Cinema, che raggruppò registi come Shirley Clarke, Robert Frank, Peter Bogdanovich e altri artisti come Andy Warhol. Creò la cineteca del film sperimentale, l’Anthology Film Archives di New York. Autore di un opus che si è posto come l’emblema del cinema indipendente tout court, ha realizzato film con lo scopo di catturare il quotidiano. Il suo As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty (2000) raccoglie oltre 40 anni di filmati familiari. L’utilizzo della macchina da presa come fosse una sorta di penna, con la quale annotare il quotidiano, lo ha posto tra i precursori della rinascita della forma diaristica.

7. John Singleton (1968-USA) È a tutt’oggi il regista più giovane nominato all’Oscar. Nel 1991, a 23 anni, fu nominato per la migliore regia e la miglior sceneggiatura, per il film d’esordio Boyz n the Hood – Strade violente. Girò in seguito il videoclip di Remember the Time per Michael Jackson, mentre nel 1993 diresse Janet Jackson e Tupac Shakur in Poetic Justice. Nel 1995 realizzò il duro L’università dell’odio. Nel 1997 diresse Rosewood, dramma sul razzismo. Nel 2000 curò la regia del remake Shaft. L’anno successivo diresse Baby Boy – Una vita violenta, atto d’accusa contro il “machismo” afroamericani. Nel 2003 fu chiamato a dirigere 2 Fast 2 Furious e nel 2005 Four Brothers. Tornò alla regia nel 2011 con il thriller Abduction. È morto per un ictus a 51 anni.

6. D.A. Pennebaker (1925-USA) È conosciuto in particolare per il documentario Dont Look Back, sulla tournée del 1965 di Bob Dylan nel Regno Unito. Viene considerato un pioniere del Direct Cinema. Fra i suoi soggetti privilegiati figurano la musica pop e la politica, come nel caso di The War Room (del 1993), che racconta la campagna presidenziale USA di Bill Clinton e del suo vice Al Gore. Il film andò in nomination come Oscar al miglior documentario e fu premiato con il National Board of Review Award. L’innegabile senso del ritmo che contraddistingue le sue opere, gli ha consentito di rendere maggiormente fruibili sul piano visivo, storiche opere musicali come quelle di David Bowie con Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (del 1973). Ha realizzato un documentario su Jimi Hendrix (Jimi Hendrix Live, del 1989), con i suoi filmati girati a Woodstock e Monterey.

5. Dusan Makavejev (1932-SER) documentarista, ha diretto alcuni film che lo hanno classificato tra i più originali autori del cinema iugoslavo degli anni Sessanta: “L’uomo non è un uccello”, 1965; Un affare di cuore, 1967. Dopo Sweet movie (1974) e Montenegro tango o Porci e perle (1981), la più felice espressione della sua fede nella libertà sessuale e del suo stile, in cui si fondono finzione, reportage e testi psicanalitici, ha diretto The Coca Cola kid (1985), Manifesto (1987), Gorilla baths at noon (1992) e A hole in the soul (1994).

4. Franco Zeffirelli (1923-ITA) Nome d’arte dello scenografo e regista italiano Gianfranco Corsi. Attore nella compagnia Morelli-Stoppa, passò ben presto alla regia, prediligendo tuttavia Shakespeare di cui dette all’inizio degli anni Sessanta, in Gran Bretagna, edizioni assai lodate (Romeo e Giulietta, Otello, Amleto). Ha curato anche la regia di opere liriche (alla Scala di Milano, al Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New York, all’Opéra di Parigi), e ha diretto diversi film nei quali la sontuosità formale e la cura filologica delle ambientazioni generano talvolta il sospetto di una ricercata esteriorità. Ricordiamo: The taming of the shrew (1966); Romeo and Juliet (1967); Fratello sole, sorella luna (1972), Gesù di Nazareth (1977, per la televisione); The champ (1979); Hamlet (1990); Jane Eyre (1995); Un tè con Mussolini (1999); Callas forever (2002);. Tra i lavori più recenti occorre citare la regia e la sceneggiatura dei corti Omaggio a Roma (2009) e Zeffirelli’s Inferno (2017). Insignito nel 2002 del David di Donatello alla carriera, dal 2017 l’archivio dell’intera carriera dell’artista, dalla biblioteca ai bozzetti dei suoi spettacoli, è confluito presso il Centro Internazionale per le Arti dello Spettacolo della Fondazione Franco Zeffirelli Onlus a Firenze.

3. Claude Goretta (1929-SUI) Dopo aver girato a Londra un notevole documentario (Nice time, 1956) in collaborazione con A. Tanner, rientrò in patria dove si affermò negli anni Settanta come uno degli autori più interessanti del cinema svizzero, per la finezza della sua indagine sociale e psicologica. Tra i suoi film: Le fou (1970); L’invitation (1973); La dentellière (1977); La provinciale (1980); La mort de Mario Ricci (1983); Orfeo (1985); Si le soleil ne revenait pas (1987); Les ennemis de la mafia (1988); L’ombre (1991). Dagli anni Novanta ha prodotto e diretto numerosi film per la televisione, tra i quali si ricordano Le dernier été (1997), Thérèse et Léon (2001) e Sartre, l’âge des passions (2006).

2. Stanley Donen (1924-USA) Inizialmente ballerino e coreografo, ha diretto alcuni tra i più noti film musicali dagli anni Quaranta in poi come On the town, il suo esordio (Un giorno a New York, 1949, con le musiche di L. Bernstein) e Singin’in the rain (1952), entrambi con l’interpretazione e la collaborazione alla coreografia di Gene Kelly, con il quale aveva lavorato sin dal principio della sua attività. Si tratta di opere che, insieme a Sette spose per sette fratelli (1954), forse la sua più riuscita, imprimono al genere musical l’evoluzione di forme e dinamismo inediti. Tra i film successivi, di vario genere, nei quali il gusto per le situazioni brillanti spesso sconfina nella routine, ricordiamo: Funny face (Cenerentola a Parigi, 1957); Il gioco del pigiama (1957); Indiscreto (1958); Arabesque (1966); Movie Movie (Il boxeur e la ballerina, 1979); Saturn 3 (1980); Blame it on Rio (Quel giorno a Rio, 1984). Per la televisione ha realizzato, tra l’altro, Love Letters (1999). Tra le varie onorificenze ricevute, gli sono stati conferiti il premio Oscar (1998) e il Leone d’oro (2004), entrambi alla carriera.

1.Agnes Varda (1928-FRA)  Nel corso della sua carriera ha maturato una forma espressiva, tanto immediata quanto speculativa, coniugando l’oggettività dell’approccio documentario alla soggettività di un rapporto complice con i personaggi messi in scena. Tra i riconoscimenti ottenuti, il Premio speciale della giuria al Festival di Berlino per Le bonheur (1965; Il verde prato dell’amore) e il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia per Sans toit ni loi (1985; Senza tetto né legge). Giunta da bambina in Francia con la famiglia intraprese dal 1951 la carriera di fotografa. Approdò al cinema nel 1954 girando La pointe courte (uscito solo nel 1956), montato grazie all’amichevole aiuto di Alain Resnais, grazie al quale si fece notare dai critici che avrebbero poi dato vita alla Nouvelle vague. Dopo alcuni cortometraggi s’impose definitivamente con Cléo dalle 5 alle 7 (1961), ritratto di una cantante che attraversa Parigi assieme a un soldato incontrato per caso, mentre attende un responso medico che potrebbe diagnosticarle un male incurabile. Abbandonata la fotografia, realizzò Le bonheur, storia di un padre di famiglia che infrange la felicità coniugale confessando alla moglie la sua relazione con un’altra donna. Rivelatasi autrice di rilievo internazionale, non fu per questo spinta a conformare la sua produzione agli standard consueti: girò infatti l’esperimento metanarrativo Les créatures (1966). Seguirono alcuni documentari, da quelli realizzati negli Stati Uniti (Uncle Yanco, 1967; Black Panthers, 1968; Lions love, 1969) a Daguerréotypes (1975), sulla vita quotidiana dei piccoli commercianti della sua strada. La sua adesione al movimento femminista produsse L’une chante, l’autre pas (1976), ritratto di due ragazze che nell’arco di dieci anni si perdono e si ritrovano. Dal 1977, grazie alla casa di produzione da lei creata (la Ciné-Tamaris), poté disporre di una totale libertà creativa. Il ritorno in America portò ai documentari Mur murs (1980), sui murales di Los Angeles, e Documenteur (1981), sulla complessa realtà della California e del sogno hollywoodiano. Dopo una serie di cortometraggi (tra cui Ulysse, 1982, che ha vinto un César nel 1984), si è imposta di nuovo all’attenzione internazionale con Senza tetto nè legge, ritratto di una vagabonda che persegue una disperata libertà per le strade del Sud della Francia. Dalla collaborazione con Jane Birkin sono nati nel 1987 Jane B. par Agnès V., dialogo per immagini tra la regista e l’attrice, e Kung-fu master, sull’incontro sentimentale tra una madre e un compagno di scuola della figlia. In Jacquot de Nantes (1991; Garage Demy) e nei documentari Les demoiselles ont eu 25 ans (1993) e L’univers de Jacques Demy (1993), ripercorre con lirismo l’infanzia e i film del marito, Jacques Demy, morto nel 1990. È un omaggio alla settima arte anche l’ambizioso Les cent et une nuits (1995; Cento e una notte), con Michel Piccoli nel ruolo di un centenario Monsieur Cinéma. E’ poi tornata alle opere di ricerca con Les glaneurs et la glaneuse (2000) e Les glaneurs et la glaneuse… deux ans après (2002), ampio documentario in due parti sui robivecchi, e il cortometraggio Le lion volatile (2003). Bellissima anche la sua ultima opera Visages, villages del 2018.

 

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