La battaglia di Hacksaw Ridge. Più delle armi

Il nostro parere

La battaglia di Hacksaw Ridge (2016) USA di Mel Gibson

di Gianfranco Angelucci (da articolo21.org)

Hacksaw Ridge è una parete scoscesa a picco per almeno trenta metri, tagliata ad angolo vivo alla sommità, scalabile unicamente attraverso una rete a maglia larga, di robusta corda, calata dall’alto ed estesa per l’intera larghezza del fronte roccioso. Un esercizio che le truppe d’assalto hanno provato e riprovato durante il duro addestramento, con la differenza che ora, una volta superato l’ostacolo e messo piede sulla spianata sovrastante, si trovano faccia a faccia con i giapponesi armati fino ai denti e intorno si scatena l’inferno della guerra vera. Se l’esercito americano riuscirà a conquistare quella posizione nell’isola di Okinawa, avrà vinto la sfida mortale contro l’irriducibile Impero del Sole.

Da Hacksaw Ridge ritornano camion traboccanti di morti, da cui i nuovi arrivati non riescono a staccare gli occhi, con più raccapriccio che pietà. Perché le armi da fuoco scempiano i corpi umani, li mutilano, li deturpano rendendoli un ammasso di carne sanguinolenta coperto da uniformi ormai irriconoscibili. La guerra, da sempre, è soltanto devastazione, è l’immagine dello scheletro incappucciato con la falce in mano, mascherato dietro un attraente sembiante di retorica e patriottismo, un demone orrendo di cui l’umanità sembra non riuscire a liberarsi. Ma l’umanità è un concetto collettivo, quasi un’astrazione; poi ci sono i singoli uomini, e tra questi chi trova inaccettabile sottostare alla regola immutabile. Uno di loro si chiama Desmond Doss, cresciuto in un paesino della Virginia, tra le montagne, su cui si arrampica fin da bambino con l’agilità di un capriolo. E fin da bambino s’accapiglia per gioco e competizione con il fratello di poco più grande, si prendono a cazzotti e se le danno di santa ragione. Un giorno il più piccolo, Desmond, colpisce l’altro con un mattone in faccia a rischio di ammazzarlo, e rimane terrificato, paralizzato dal proprio gesto, dalle tragiche conseguenze che avrebbero potuto scaturirne. Come quando, una volta cresciuto, per difendere la madre continuamente malmenata, è costretto a saltare addosso al padre e a disarmarlo a forza della pistola carica da cui parte un colpo per fortuna a vuoto. “Sparami!” Lo implora il genitore, che da quando è tornato dalla guerra, la prima guerra mondiale, non si è più ripreso, continua a bere e a riversare in famiglia la violenza oscura che lo possiede. I suoi migliori amici, partiti con lui a diciotto anni, sono sepolti nel cimitero della cittadina, tra le cui lapidi egli si aggira come un ossesso senza trovar pace.

Desmond è cresciuto nell’odio della guerra, nel rifiuto delle armi, secondo gli insegnamenti degli “avventisti del settimo giorno”, la religione a cui ha aderito con tutto se stesso. Ma l’America è di nuovo nel mezzo di un terribile conflitto, e dopo l’attacco di Pearl Harbour la nazione intera si stringe attorno alla propria bandiera, i giovani in età di leva fanno domanda per partire volontari. Lo stesso fa anche suo fratello, che un giorno si presenta a cena in divisa, sfidando le ire paterne. Così farà poco dopo anche Desmond, per senso del dovere verso la patria. Non lo trattiene neppure l’amore che è sbocciato, purissimo e passionale, con una giovane e avvenente infermiera del luogo, che conosce andando a donare sangue, e conquista con la forza di un sentimento adamantino, incontrastabile. Al punto che quando arriva la chiamata alle armi, lei gli chiede come dono reciproco di immenso valore, di condurla all’altare prima di partire.

L’arruolamento di Doss non è semplice, non si può pretendere di essere mandato sul campo di battaglia senza imbracciare un fucile. E’ un controsenso, oltre che una insensatezza, andare in guerra esponendosi alla morte ma astenendosi da ammazzare il nemico; un ossimoro metafisico. Per quale fine? Il ragazzo che nel frattempo ha subito per presunta vigliaccheria ogni tipo di vessazione dai commilitoni, spiega in tutti i modi ai suoi superiori che la sua partecipazione accanto ai compagni sarà quella di “rimettere a posto i pezzi lacerati dalle armi” servendo nel reparto medico. Rischia di finire davanti alla corte marziale per insubordinazione, ma alla fine il giudice, accogliendo il ricorso del suo avvocato a un emendamento della Costituzione, lo salva dal plotone di esecuzione: “Questo tribunale l’autorizza ad andare sul campo di battaglia senza tenere in mano un’arma con cui difendersi: e che Dio la protegga”.

Nel 1945 la missione a cui la sua divisione è comandata è appunto la quasi impossibile conquista dell’isola di Okinawa, uno scudo avanzato per le isole metropolitane dell’Impero nipponico. Per gli americani Okinawa rappresentava l’apice di quasi quattro anni di guerra nel Pacifico e per i giapponesi l’ultima battaglia prima dell’invasione della madre patria. Sappiamo che per 80 giorni infuriò lo scontro nel quale si contrapposero tenacia, fanatismo e disperazione. Uno dei dati più impressionanti fu il numero delle missioni suicide giapponesi, che ammontarono a 1900. Sull’isola si registrò un altissimo numero di vittime civili, 150.000, quasi un quarto della popolazione locale, e impressionante fu la decimazione dei militari americani: un sacrificio epico altre volte celebrato dal cinema bellico statunitense. Che in questo film assume un diverso valore metaforico in virtù della vicenda, reale, del soldato Desmond Doss, obiettore di coscienza sopravvissuto alla sua stessa utopia pacifista e decorato alla fine del conflitto con la medaglia d’onore, la più alta onorificenza al valore militare, per aver salvato 75 soldati senza mai utilizzare un’arma.

La leggendaria battaglia è raccontata e riproposta nei dettagli da Mel Gibson, il quale in fatto di violenza non ama le mezze misure, nella sua più cruda e terrificante carneficina, un vero condensato di orrore in cui il destino dell’uomo, e in particolare del guerriero, una figura così cara al regista, sembra non potersi compiere se non nella più elementare delle sue necessità, lo scontro per la vita, per l’onore del proprio popolo, per la difesa delle proprie case, per la riaffermazione dei propri principi irrinunciabili, aggredendo e annientando il nemico fino all’estremo martirio.

Millenni di civilizzazione sulla terra non sono serviti ad altro che escogitare sempre più potenti e micidiali strumenti di massacro e distruzione. “Un terribile amore per la guerra” (A Terrible Love of War, 2004), intitola James Hillman il suo libro sul mito ancestrale, “come pulsione primaria e ambivalente della nostra specie, una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà”.

Il giovane Doss, ventitre anni, che va in guerra a mani nude, milita appunto sul fronte dell’amore e della solidarietà, per riparare agli scempi che le armi producono. Doss è “il buon Samaritano” della parabola evangelica che soccorre i caduti sul campo, armato di Bibbia, di lacci emostatici, di bende e di morfina, cercando di portare in salvo quanti più soldati possibile. Quando il silenzio di Dio diventa più assordante degli urli di dolore e di morte, quando Dio non risponde neppure all’invocazione di suo figlio in croce, è in quel momento che l’eroe disarmato si slancia con ancora maggior veemenza lì dove la guerra infuria, e con la forza della propria fede e delle proprie mani, nude e piagate, salva da morte sicura i feriti senza alcuna speranza di sopravvivenza, calandoli uno a uno dalla cima di Hacksaw Ridge. Per ognuno che porta in salvo chiede a Dio una prova successiva: “Fammene trovare ancora un altro”; e si getta a testa bassa nella gaénna della mitraglia e delle esplosioni. L’impresa di Doss ci appare un prodigio inspiegabile e il film di Mel Gibson riferisce questa vicenda come avvolta in un alone soprannaturale; eppure di parla di un ragazzo dal cuore puro e della grandezza dell’anima umana. Un film potente e impavidamente fracassone, nello stile più tipico del suo autore, che induce a riflettere sul mistero degli ignoti fantasmi che si agitano incessantemente dentro di noi.

Andrew Garfield, reduce da “Silence” di Martin Scorsese, ci dona una prova magistrale che lo colloca d’autorità tra i migliori interpreti del cinema hollywoodiano. Accanto a lui Teresa Palmer è una magnifica, tenera, adorabile, impareggiabile fidanzata.

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