Killer Joe (L’America dei senza Dio)

di Gianfranco Angelucci

America senza Dio. Nel Paese fondato dai Padri Pellegrini sbarcati dalla Mayflower nessuno si ricorda più di Lui. Il settantasettenne William Friedkin, l’autore di “L’esorcista” (1974) torna sul set e ci spiattella sotto il naso una storia balorda della profonda provincia yankee, tra Texas e Oklahoma. Appoggiandosi a una

pièce teatrale di Tracy Letts (anche sceneggiatrice) in precario equilibrio tra horror e grottesco, mette in scena una bella campionatura di umanità irredenta. Il giovane Chris va a picchiare di notte, sotto il diluvio, alla porta del padre che vive in una baracca insieme alla nuova moglie, ospitando anche Dottie, la figlia adolescente di primo letto, restata alla stadio infantile. La matrigna Sharla (Gina Gershon, ancora niente male a cinquant’anni) va ad aprirgli col boschetto ben in vista, giustificandosi alle sue goffe rimostranze: “Che ne sapevo che eri tu!” Il ragazzo trascina fuori il padre, nella cabina del pick up, per dirgli che s’è messo nei guai con la droga, lo cercano e lo faranno a pezzi se non restituisce i soldi. L’unica soluzione è uccidere la madre e dividersi il premio di 50.000 dollari dell’assicurazione. Ha già trovato l’esecutore, Killer Joe, un poliziotto che si arrangia con il secondo lavoro. Si incontrano con lui (Matthew McConaughey) di nero vestito dai guanti al cappello, il quale pretende in anticipo la metà dell’incasso. Oppure, in mancanza, quale caparra in natura, la piccola Dottie vergine e ancora minorenne. Chris le è morbosamente legato ma non ha scelta, gli spacciatori lo massacrano di botte come ultimo avvertimento. Alla ragazzina rotondetta e sempre in calzoncini e scarpe da tennis, viene acquistato un tubino stretch da sfoggiare durante la cena in onore di Joe. E il poliziotto arriva puntuale a riscuotere il dovuto, deciso ad ammansire ogni resistenza per amore o per forza. Strapazza a sangue l’impertinente Sharla mostrando al capofamiglia le foto sconce dei suoi tradimenti, e nonostante la faccia tumefatta la obbliga a simulare una lunga, oscena fellatio con una coscia di pollo fritto. Infine agguanta da dietro la ragazzina e se la gode senza ritegno iniziandola con metodo a ogni piacere del sesso. Il disegno criminale riesce però solo in parte, c’è un risvolto imprevisto che manda all’aria la conclusione sperata. La famigliola, malconcia e compunta, si ritroverà al funerale dell’odiata madre, i suoi membri ormai cementati dall’abituale gioco al massacro. E Killer Joe spadroneggia, allietato persino da un improvvisa consolazione paterna: Dottie infatti è incinta. Questa America trash dei redneck, proletari allo sbando con la birra in mano davanti alla TV e il sabato sera al bar a eccitarsi con la lap dance, non è il girone demoniaco di Corman McKarthy in cui la violenza brucia già tra le fiamme dell’inferno. E non allude neppure a “Le iene” (Reservoir dogs) di Quentin Tarantino, un cinema postmoderno compiaciuto di rifare il verso a se stesso. Friedkin è dell’altra generazione quando le cose si facevano seriamente o niente, e non gioca. Ebreo di Chicago, classe 1935, considerato un campione della “New Hollywood” degli anni ’70, è diventato regista interrompendo l’High School e lavorando come fattorino per una stazione televisiva, promosso all’ufficio corrispondenza e quindi a producer. Il suo non è un cinema da intellettuali né per signorine. Fernando Rey, co-protagonista di “The French connection”, mi raccontava degli scontri sul set tra Friedkin e Gene Hackman. “Put your finger in your ass!” Si urlavano quando, all’americana, ognuno difendeva le proprie ragioni puntando il dito arrogante sul petto dell’altro. Se conoscete la traduzione di ass, capite che è meglio evitare certi duri di vecchio stampo, a scanso del peggio.

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1 Response

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