Abbas Kiarostami. Il maestro dall’Iran

Il 2016 continua ad essere particolarmente infausto per le perdite cinematografiche. Anche Abbas Kiarostami ci ha lasciato. Con lui scompare un intellettuale integro e innovativo, un acuto osservatore della realtà sociale del suo paese, capace di esprimere i sentimenti di un popolo in modo libero, senza lasciarsi intimidire dalla censura e dalla rigida cappa conservatrice che da anni costringe l’Iran in una morsa dittatoriale.

Nato a Teheran il 22 giugno 1940. I suoi film, raro esempio di coerenza stilistica e libertà creativa, sono fondati su un sentimento morale dello sguardo, che indaga paesaggi esteriori e interiori (riferiti cioè alla verità antropologica e a quella psicologica) di personaggi semplici, ascoltati nella loro realtà quotidiana e nel difficile contesto dell’Iran contemporaneo; ma anche su un’acuta consapevolezza del dispositivo filmico e dei processi di finzione da esso messi in atto, con una tensione metalinguistica mai gratuita e sempre emozionante. La collocazione di Kiarostami tra i più importanti cineasti contemporanei è stata sancita da vari riconoscimenti ottenuti in numerosi festival internazionali, tra i quali il Pardo di bronzo a Locarno nel 1989 per Khāne-ye dust kojāst? (1987; Dov’è la casa del mio amico?), la Palma d’oro ex aequo a Cannes per Ta῾m-e gilāss (1997; Il sapore della ciliegia) e il Premio speciale della giuria a Venezia per Bād mā rā khāhad bord (1999; E il vento ci porterà via).

Figlio di un artigiano decoratore, nel 1960 fu assunto alla Tabli Film, la principale casa di produzione iraniana di film pubblicitari dove realizzò fino al 1969 più di centocinquanta shorts. Nel 1969 Firuz Shirvanlu, direttore del Kānun-e Parvaresh-e Fekri-ye Kudakān va Nowjavanān (Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti), lo chiamò a collaborare alla creazione della sezione cinematografica. Nān va kuche (1970, Il pane e il vicolo) fu il primo film realizzato, e il primo anche del regista. Seguì fino al 1983 un’altra quindicina di fondamentali documentari ‘pedagogici’. Sono piccole parabole morali, in cui la tersa e implacabile osservazione del comportamento e della psicologia dei bambini pone il problema della responsabilità di una scelta etica. Ciò appare evidente in Do rāh-e hal barāy-e yek masale (1975, Due soluzioni per un problema), in cui il piccolo Dara si vede restituire da un amico un quaderno con la copertina strappata e si trova di fronte al dilemma se vendicarsi o limitarsi a incollare la copertina, e in Be tartib yā bedun-e tartib (1981, Disciplinatamente o indisciplinatamente), in cui il senso della disciplina viene continuamente messo in discussione dalla troupe, che fatica a organizzare le riprese. Nel 1973 con Tajrobe (Esperienza), una sommessa storia di innamoramento e disillusione tra due giovani appartenenti a classi diverse, realizzò il suo primo film di finzione, intrecciando l’approccio documentaristico alla sottile tessitura narrativa, con una naturalezza a un tempo cruda e poetica che richiama la lezione neorealista di De Sica e Rossellini: un’attenta osservazione esistenziale del quotidiano e dei sentimenti amorosi che sarebbe poi ritornata nel lungometraggio Gozāresh (1977, Il rapporto).

Ma è stato con Lebāsi barāy-e ῾arusi (1976, Il vestito per il matrimonio), sul sogno a occhi aperti di un piccolo garzone di sartoria, e soprattutto con Mosāfer (1974, Il viaggiatore), Avalihā (1985, Gli alunni della prima classe) e Mashq-e shab (1989, Compiti a casa) che pervenuto a una sottigliezza vibrante di emozioni nel coniugare la riflessione sul potere di fascinazione (ma anche di inquietante manipolazione dei sentimenti) dell’occhio meccanico del cinema con l’osservazione dolorosa e partecipe delle indifese reazioni emotive dell’infanzia.

In Mosāfer un ragazzino fugge da scuola per andare ad assistere a una partita di calcio, ma arriva stremato in anticipo sull’inizio e si addormenta sull’erba fuori dallo stadio; in Avalihā alcuni insegnanti interrogano un gruppo di piccoli allievi che hanno trasgredito le regole, e affiora, sotto lo sguardo neutro ma determinante della cinepresa, una forte dinamica emotiva; gli interrogatori ritornano in Mashq-e shab, nel quale, partendo dai racconti in prima persona degli alunni sul dovere oppressivo dei compiti a casa, Kiarostami scruta i volti infantili.

Costituisce una meditazione essenziale sull’illusione e sul disinganno la trilogia composta da Khāne-ye dust kojāst?, Va zendegi edāme dārad (1992; E la vita continua) e Zir-e derakhtān-e zeytun (1994; Sotto gli ulivi), nella quale il suo discorso filmico si rivela pienamente, in tutta la sua complessa e perfetta simmetria di echi: sono tre opere legate tra loro da fili tenaci e sottili, e compongono tutte insieme una struggente elegia sul sogno della verità e sulla verità dei sogni. Se il punto di partenza è costituito dalla semplice vicenda di Khāne-ye dust kojāst? (due compagni di scuola si scambiano per errore i quaderni dei compiti e uno dei due per restituire il quaderno deve compiere una ricerca iniziatica e laboriosa della casa dell’amico), il procedimento creativo di consiste nella naturale e necessaria ‘generazione’ dei tre film l’uno dall’altro. In Va zendegi edāme dārad, infatti, un regista (suo alter ego) si mette in viaggio sulla sua auto in compagnia del figlio, lungo le strade polverose di una regione dell’Iran settentrionale colpita nel 1990 da un terremoto, alla ricerca dei bambini protagonisti del film precedente: anche qui si svolge una ricerca che, mentre affonda nelle piaghe concrete della rovina e della distruzione, rispecchia e rilancia una dimensione simbolica, universale e insieme autoriflessiva, nella spinta, nonostante tutto, a continuare a vivere. In Zir-e derakhtān-e zeytun Kiarostami immette il set stesso nella sua elaborazione filmica (sempre in bilico tra abbandono al flusso del reale e sorvegliato svolgimento della finzione), rivolgendosi a ciò che precedentemente era rimasto ‘fuori campo’: si vede infatti il progressivo costruirsi di una sequenza del film precedente, quella su una giovane coppia di sposi in un villaggio devastato dal terremoto, e si assiste al percorso psicologico di un operaio della troupe che, ingaggiato per la parte dello sposo, si innamora della ragazza che nella finzione ha il ruolo della sposa.

Nel 1990 gira il suo film forse più ‘teorico’, ma allo stesso tempo ricco di tenera ironia, Namā-ye nazdik (Close up), in cui un povero disoccupato si spaccia per Mohsen Makhmalbaf, tra i più noti registi iraniani, in un misto di pietosa mitomania e di appassionata emulazione: ne risulta il ritratto di un personaggio che vive ostinatamente un suo sogno, e insieme un resoconto autocritico, drammaturgicamente riversato in un’ambiguità pirandelliana, sui poteri d’illusione del cinema, che lungo questo doppio binario riesce a ‘farsi stile’.

Questo riversare nella messa in scena lo sguardo (assunto come dato di realtà, stile, responsabilità morale) viene in luce nei suoi film successivi, che raggiungono un rigore formale di perfezione classica, pur conservando la tensione ruvida della ‘presa diretta’ sulla verità delle cose. Ta῾m-e gilāss, storia dell’ossessivo girovagare di un personaggio, di cui non si sa nulla, alla ricerca di qualcuno che lo aiuti a suicidarsi, è una meditazione assorta sulla vita come scelta etica e non come obbligo, conclusa da un’ipnotica e misteriosa sequenza sul cinema come mezzo per poter ‘rivivere’. Bād mā rā khāhad bord è invece una più aerea e rapsodica elegia sulla ‘resistenza’ in un piccolo villaggio iraniano dei ritmi di vita ancestrali che, nonostante i tentativi di sottoporli alla manipolazione della modernità e dei suoi media, perdurano in una sorta di eternità immota affidata al flusso della natura e di cui pure il cinema, al di là del suo scacco, non può far altro che dar conto umilmente. Dopo aver realizzato in Africa, trasferendo per la prima volta il suo intenso sguardo al di fuori dell’Iran, il documentario ABC Africa (2001), Kiarostami è pervenuto con Ten (2002; Dieci) a un’estrema scarnificazione del procedimento filmico, in un’opera che, attraverso il protratto e inquieto vagare per le strade di una donna al volante della sua vettura, è costruita quasi interamente su pochi campi alternati all’interno dell’auto: qui deroga ai suoi ricorrenti piani-sequenza en plein air e si rinserra nel disagio fisico e psicologico della condizione femminile, scandendone il ‘tempo esistenziale’ nella precisione di blocchi temporali.

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