War Machine. L’arte della guerra e della satira

Il nostro parere

War machine (2017) USA di David Michod

Il generale 4 stelle statunitense Glen McMahon viene inviato in Afghanistan da Obama per portare la guerra alla fine. Noto come un leader carismatico, che agisce in buona fede ma con le sue mille contraddizioni, si ritrova ad essere al centro di un reportage di un giornalista di un giornale musicale senza peli sulla lingua con esiti, per il generale, negativi.

Film girato in tono surreale che tanto surreale non è. Anzi, per contrasto, emerge tutta la precarietà, la falsità degli apparati ideologici e propagandistici degli Stati Uniti. Molto vicino alla modalità cinematografica dei Coen, di Clooney e dello stesso Pitt in più prodotti (basta pensare a L’uomo che fissa le capre), è un prodotto ironico e corrosivo che sembra però, proprio perché sulla falsariga dei nomi appena elencati, ripetitivo e poco innovativo.

Prodotto da Netflix che lo ha diffuso direttamente sulla sua piattaforma e diretto dall’australiano Michod, discreto talento, è comunque un’opera interessante per la ricognizione dall’interno del mondo militare statunitense con i collegamenti alla politica. Poco si salva, in effetti, da questa sorta di reportage che descrive la più grande potenza militare del mondo in mano a uomini ottusi, preda delle proprie pulsioni e della vanità. Il personaggio del generale è altamente metaforico. Concentrato su un mondo che non esiste e che ha edificato nella propria mente, non è in grado di esprimere alcun concetto al di fuori, improvvisamente ammutolito davanti alla moglie, cui non sa dare alcun conforto.

Da ricordare l’andatura che Pitt ha dato al generale, buffa e rigida, come il personaggio stesso, nonché i fantastici siparietti con Ben Kingsley-Karzai che danno il senso dell’ottusità americana nel confronto con altre civiltà

Potrebbe piacerti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Email