UNA PELLICOLA LUNGA 90 ANNI (Mostra a Roma del “LUCE, L’immaginario italiano”)

di Gianfranco Angelucci

Si apre a Roma, al Vittoriano, il libro di storia degli italiani. Imperdonabile perdere questa mostra, ed è davvero un peccato che cada in tempo di vacanze (dal 4 luglio al 20 settembre) perché tutti i giovani in età scolare dovrebbero visitarla, sarebbe per loro una scoperta, una palingenesi, un recupero delle radici; imparerebbero finalmente a conoscere da vicino la nazione in cui vivono e di cui ignorano quasi tutto. Speriamo ci pensino i genitori a portarceli, come si va insieme a una festa.

Speriamo che accorrano spettatori da ogni parte d’Italia; speriamo che una volta entrati si trattengano per ore. Perché c’è tanto di quel materiale da indugiare, volendo, anche una mezza giornata a guardare i filmati (e le fotografie) che l’Istituto LUCE ha messo in vetrina per celebrare i suoi 90 anni di esistenza; nel legittimo orgoglio di costituire il più antico istituto pubblico cinematografico del mondo. Il nome è un acronimo, L’Unione Cinematografica Educativa, creata nel 1924 per volontà di Benito Mussolini, genio della comunicazione, a soli due anni dalla presa del potere.

Negli anni Venti le pellicole erano ancora mute, la prima cinepresa sonora verrà acquistata nel nostro Paese nel 1931, eppure il duce si rende conto con chiarezza che se l’Italia deve trasformarsi dalle radici, ha bisogno prima di tutto di conoscere se stessa e il mondo fuori dei propri confini. Nessuno strumento più del cinema può assolvere questo compito. Il L.U.C.E. prende vita con la vocazione al reportage geografico e antropologico, e dunque con la funzione di portare sugli schermi realtà, abitudini, culture lontane e sconosciute; ma non più sconosciute, paradossalmente, delle condizioni di vita in casa propria, a causa dell’immensa distanza che separava la città dalla campagna. Ed è proprio questo l’argomento iniziale di un itinerario espositivo che, partendo da un’Italia ancora rurale e poverissima, ci conduce attraverso le vicende della dittatura, della guerra e della ricostruzione, agli anni più recenti del boom economico: un volo vertiginoso sulle ali di Gerione tra i vari gironi domestici del Novecento; uno straordinario viaggio nel tempo da lasciare col fiato sospeso.

Gran parte della mostra è dedicata al periodo fascista, l’epoca più lontana da noi e oggi per molti aspetti grottesca, ‘pittoresca’; ma anche la più ampiamente documentata dal momento che i Cinegiornali Luce venivano utilizzati dal regime come macchina per la propaganda: Mussolini in persona, a Villa Torlonia, supervisionava i filmati e decideva quali andassero confezionati per le sale. Gli accattivanti servizi, impaginati e proiettati prima dei film in programmazione nei cinema, servivano soprattutto a illustrare le grandi opere del governo, le apparizioni del duce, la sua instancabile azione di rinnovamento, i suoi discorsi, i suoi successi in patria e all’estero, il consenso entusiasta che gli tributava la folla. Non era stato il velenoso Leo Longanesi a inventare lo slogan “Mussolini ha sempre ragione”? Solo nella Città Eterna, in appena venti anni, erano state apportate modifiche epocali oggi neanche lontanamente concepibili, se è vero che l’attuale sindaco di Roma non riesce neppure a rimuovere un qualsiasi furgoncino abusivo di bibite e panini che scempia scorci paesaggistici millenari.

Si parla tanto del ventennio berlusconiano; c’è stato? Qualcuno se n’è accorto al di là delle polemiche giudiziarie, del gossip d’alcova e degli alibi immobilistici della vecchia sinistra per mantenere incancrenite posizioni di vantaggio a danno della società? Nei filmati del LUCE assistiamo a sconvolgimenti urbanistici radicali, la demolizione di interi quartieri, la costruzione in poco più di un anno di Via dell’Impero (poi ribattezzata con pudore Via dei Fori Imperiali) progettata per unire in un unico colpo d’occhio il Colosseo a Piazza Venezia; o Via della Conciliazione che dal Lungotevere convogliava lo sguardo alla visione di San Pietro, del colonnato di Bernini, dell’immensa cupola di Michelangelo. Scenografie fastose, giudicate di dubbio gusto dagli archeologi, eppure capaci di restituire alla Capitale una cornice di abbagliante grandiosità.

Sorgono dal nulla lo Stadio dei Marmi, il Foro Mussolini decorato da mirabili pavimentazioni a mosaico; la Stazione Ostiense costruita per l’arrivo del treno blindato del Fürer in occasione della visita ufficiale nel ’38. Si edificano armoniosi insediamenti popolari come la Garbatella, partoriti da ben studiati piani regolatori; oppure quartieri residenziali di lusso sul colle dei Parioli; avveniristici avamposti urbani nell’immediata periferia; l’Eur con i suoi edifici monumentali, il Palazzo dei Congressi, il Palazzo della Civiltà del Lavoro, L’Archivio Centrale dello Stato, i Palazzi dell’INA, dell’INPS, delle Poste, la basilica dei Santi Pietro e Paolo. Alle porte di Roma, verso i Castelli, vengono fondati gli stabilimenti di Cinecittà, il Centro Sperimentale di Cinematografia, la sede stessa dell’Istituto Luce.

Negli immediati dintorni della Capitale migliaia di chilometri quadrati di terra coltivabile sono strappati alle paludi da coloni romagnoli e veneti, e sull’Agro Pontino sorgono le città di Latina, Sabaudia, Pontinia, spuntate dal nulla nel giro di un pugno di mesi. Si tracciava la Cristoforo Colombo, lungimirante arteria autostradale verso il mare, nata per riunire l’Urbe e Ostia in un’unica area metropolitana, come già era stato in antico. Le opere e i giorni. La popolazione era descritta come infaticabile artefice del proprio destino, compatta attorno a un progetto di globale espansione verso un futuro che avrebbe ridonato all’Italia onore e ricchezza.

Le cose non andarono così e sappiamo anche in quale tragedia naufragarono. Oggi ci fanno ridere le cento facce del tiranno, teatrante consumato, estrapolate dalle pause dei suoi discorsi roboanti pronunciati dal balcone fatale o in altre mille circostanze; smorfie, ghigni, boccacce, labbroni, gesti perentori, montati con arguzia e malizia per suscitare lo scherno e smascherarne il pagliaccesco imbroglio retorico. Ma è Italia anche quella, inutile voltare la faccia. Se una cosa ci insegna questa mostra allestita con l’organizzazione di Alessandro Nicosia nel luogo più sacro della Patria, è che non esistono fratture di comodo; molto meglio cercare di capire, con il beneficio del distacco che ci offre la distanza di tempo, un passato di errori, ma anche di incredibile potenzialità, che abbiamo dietro le spalle.

Nella sala centrale della mostra quattro immensi dolmen disposti a circolo, monoliti di sei metri di altezza, rigurgitano una cateratta di immagini sulla storia di ieri: l’uscita dalla guerra, il Piano Marshall, la creazione di una società di insperato benessere, i “favolosi anni ’60” fin troppo vagheggiati, l’esplosione della vitalità, della creatività, dell’ottimismo, della certezza di farcela, di figurare con pari dignità accanto alle grandi potenze del pianeta. Fotografie, filmati, simboli di una nazione che sa resistere e reagire anche alle peggiori intemperie; e nell’ultimo capitolo della mostra alcuni inediti “fuori scena” dei film d’autore prodotti o distribuiti dal Luce. L’allestimento essenziale e geometrico, bianco alle pareti e grigio ardesia nella moquette, predispone una cornice espositiva di avvolgente chiarezza. Non altrettanto accattivante il catalogo, concepito graficamente come un patchwork sovraffollato, quando sarebbe stato più opportuno consegnare allo spettatore un originale e succoso breviario di consultazione.

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