L’erotica sciamana (Jole Silvani)

di Gianfranco Angelucci

I felliniani conoscono bene Jole Silvani, perché l’attrice triestina apparve nel primo film del regista, “Lo sceicco bianco” in un personaggio particolare accanto a Giulietta Masina. La quale mirava al ruolo della protagonista, che il marito invece assegnò a Brunella Bovo (“Bravissima – mi dichiarò Giulietta con tono polemico in un’intervista – ma io gliel’avrei fatto meglio!”); e dovette accontentarsi di una ‘genericata’, in cui impersonava una buffa prostituta romana dal nome fatale, Cabiria. La scena si svolge a Piazza Campitelli, dove arriva afflitto e smarrito il ragionier Ivan Cavalli (Leopoldo Trieste) che è stato lasciato dalla sposina Wanda durante il viaggio di nozze a Roma. Mentre è seduto in lacrime sul bordo della fontana, viene abbordato da due peripatetiche: Cabiria e la veneta Matilde, interpretata da Jole Silvani, grande, ubertosa e di buon cuore. E’ a casa di lei che Ivan trascorrerà la notte, come si è scoperto di recente grazie a una sequenza ritrovata dalla Cineteca Nazionale nei suoi archivi, a suo tempo tagliata dal film. Ventotto anni dopo Jole Silvani viene richiamata da Fellini sul set di “La Città delle Donne” (1980), quando ha settanta anni, dieci più del regista, per impersonare la vogliosa ‘motociclista fuochista’ che tenta di sedurre Snàporaz (Mastroianni) dentro una serra di plastica dell’agro romano. Federico aveva un debole per lei, ne era invaghito fin da ragazzo, quando la ammirava come soubrette sui palcoscenici del teatro di varietà: “Voglio confessare che io ho deciso di fare il regista solo per poter avvicinare tutte le attrici che mi erano piaciute durante la giovinezza quali Mae West, Joan Blondel e Jole Silvani.” La bella ‘mula’ si chiamava nella vita Niobe Quaiatti e recitava nella compagnia dialettale “Triestinissima” accanto al leggendario Angelo Cecchelin, al quale rimase legata anche sentimentalmente (nacque dalla loro unione il figlio Guido) fino alla morte del capocomico avvenuta nel 1964. Il loro repertorio riscuoteva in tutt’Italia un successo strepitoso, e l’attrice ricordava che in sedici anni di attività aveva goduto di appena trentotto giorni di riposo. Alla fine degli anni Cinquanta entrò nella compagnia di Paolo Poli dove lavorò per 14 stagioni. Recitò anche per Franco Enriquez, e nei teatri stabili di Torino, Roma e Trieste. E fu naturalmente utilizzata dal cinema sotto la guida dei maggiori registi italiani (Bertolucci, Bolognini, la Wertmuller, Zeffirelli); ed era stata un’interprete “scatenata” nella commedia di costume “La famiglia Passaguai” di Aldo Fabrizi (1951). Tuttavia era stato Fellini a donarle la prima notorietà sullo schermo, inseguendo una propria chimera: “Ricordo – scrisse di lei – che nei primi tempi del mio soggiorno romano, con il comico Cecchelin c’era anche una africanona, una specie di stregona, di sciamana, una bellissima donnona che rispondeva al nome di Jole Silvani, formosa, potente, con le narici dilatate e con gli occhioni che sembravano pece liquida. Ed io l’ho sempre seguita nonostante che le venute a Roma di Cecchelin fossero molto sporadiche a causa dei suoi guai con la questura.” Su Jole Silvani è ora uscito un bellissimo libro di “Comunicare edizioni” (pp.172, 19 euro), scritto da Guido Botteri che è stato tra i fondatori del Teatro Stabile di Prosa Friuli e Venezia Giulia; un volume prezioso di informazioni, notizie, illustrazioni che il CSC – Cineteca Nazionale ha presentato presso la Sala Trevi di Roma. Insieme all’autore era presente Paolo Poli, il quale ebbe l’attrice per molti anni ospite nella sua casa romana; e ha raccontato come tutti, nel giro dello spettacolo, erano soprattutto curiosi di cosa fosse accaduto tra Fellini e la Silvani. Egli stesso cercando di strapparle confidenze sull’exploit “sessuale” del celebre regista romagnolo, rimase ammirato dell’aggettivo che Jole aveva utilizzato per illustrarlo: “A te lo posso dire: «conforme»!” Il geniale fantasista toscano non ha mancato di deliziare il pubblico con una raffica inarrestabile di battute e affettuose malignità. Specificando come ai suoi tempi i gay (lui ha usato un termine più crudo) per pudore venivano chiamati “enfants terribles”; e rievocando: “Ho conosciuto Jole Silvani al Carcano di Milano, dove si esibiva in una compagnia di tutte donne, con battute del tipo “il ricordo del tucùl”, oppure “quel bel pezzo di Figaro, figa di qua figa di là.” La sala crollava dalle risate perché Jole Silvani possedeva una simpatia, uno spirito, una libertà, un’intelligenza, una padronanza della scena, che poteva permettersi qualsiasi uscita rimanendo sempre una grande signora del palcoscenico.”

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