Ben Gazzara: l’attore dal sorriso malinconico

di Gianfranco Angelucci

Ben Gazzara è stato un buon attore americano e nella sua carriera ha interpretato film importanti, ruoli di un certo successo. Per la regia di John Cassavetes, Mariti (1970), Assassinio di un allibratore cinese (1976), La sera della prima (1978), con a fianco l’affascinante Gena Rowlands. In Saint Jack (1979) di Peter Bogdanovich impersonò un indimenticabile scrittore fallito e pappone in un bordello di Singapore. E in Italia ha lavorato con Marco Ferreri, con Pasquale Festa Campanile, con Bevilacqua, Montaldo, Tornatore, Castellani. Sempre, per sua ammissione, con grande piacere, essendo di origine siciliana e molto legato al nostro Paese. La sua autobiografia, In The Moment (Carrol & Graf, New York) parla anche di Fellini. Si ride non poco lungo le 300 pagine del libro, scritto con mano sicura ed equilibratissima, una prosa piana e leggera, intrisa di sense of humour. Ma ciò che più avvince è la grande umanità del personaggio. Non amo fare del banale nazionalismo, ma non a caso Benny è di sangue italiano. Il secondo capitolo si apre così:

«Mia madre, Angela Cusumano, venne in America nel 1902; aveva diciassette anni. Non ho mai avuto una madre giovane. Quando nacqui nel 1930, lei aveva 45 anni. Sebbene in  viso avesse già le rughe, non si truccava mai. Aveva la fronte alta circondata da rigogliosi capelli neri punteggiati di grigio, che teneva immancabilmente legati in una crocchia. La prima volta che la vidi disciogliersi i capelli pensai che non avrebbero mai finito di cadere.  Scivolarono lentamente lungo la schiena fino a fermarsi sotto le ginocchia. Però ciò che sempre mi conquistò di mi madre, erano i suoi occhi. Cambiavano colore a seconda di come la luce li colpiva. A volte erano marroni, altre volte dorati, o verdi, e anche azzurri. (Sono stato fortunato; posseggo gli occhi di mia madre).

Nel 1908, mio padre, Antonio Gazzara, arrivò negli Stati Uniti. Aveva trentotto anni. E la ferma intenzione di voler far ritorno al suo paese, in Sicilia. A differenza di mia madre, non mise mai radici in America. Non imparò neppure l’inglese – l’America dopo tutto era una condizione transitoria. Lavorò duramente come asfaltista, muratore, carpentiere e qualsiasi altro lavoro gli capitasse.  Il denaro l’avrebbe riportato con sé, in Italia. Ma non ne fece mai abbastanza per tornare. Sapevo che covava dentro una tristezza, così mi piaceva molto quando riuscivo a farlo sorridere. (Io posseggo il sorriso di mio padre)».

Il libro è pieno di personaggi famosi, vi si incontra tutto il gotha dello spettacolo, attori ed attrici divenuti icone leggendarie. Vi è ripercorsa naturalmente l’intera carriera dell’attore, da ragazzo povero del Lower East Side che vince una borsa di studio di recitazione all’ingresso all’Actor’s Studio; i primi premi di teatro nel 1955 in ruoli da protagonista per La Gatta sul tetto che scotta o Un cappello pieno di pioggia; poi la televisione e il cinema, più di cinquanta film interpretati nella lunga e fortunata carriera. Una figlia, Elisabeth (palpitante la conversazione al telefono in cui lei gli annuncia che sta per sposarsi), e tre mogli, di cui l’ultima tedesca, Elke, con cui l’amore, che ancora dura, scoppia proprio a Roma, dove l’attore è chiamato per le ultime tre settimane di lavorazione del film Inchon con Toshiro Mifune. E mette piede così finalmente a Cinecittà:

« I viali erano alberati, e i teatri di posa dipinti in una calda tinta rosso bruciata. La vita scorreva meno di fretta che negli studi americani. Si lavorava sodo ma nessuno sembrava precipitarsi. Il nostro teatro era secondo per grandezza soltanto a quello occupato al momento da Federico Fellini per la sua Città delle Donne, che aveva per protagonista Marcello Mastroianni. Un pomeriggio mi aggiravo nel comprensorio quando sentii qualcuno chiamarmi: “Ben Gazzara?” Era Mastroianni. Si presentò e disse che pur andando molto poco al cinema, un’amica l’aveva trascinato a vedere Assassinio di un allibratore cinese, e l’aveva trovato splendido. Finalmente avevo l’occasione di dirgli a mia volta quanto ammirassi da sempre il suo lavoro, e quanto lo invidiavo per la sua lunga collaborazione con Fellini. “Ti piacerebbe incontrarlo?” mi chiese  Risposi che ne sarei stato onorato. Lo seguii in un enorme teatro di posa con le pareti tutte nere. Fellini era in piedi, da solo, al centro di quello spazio buio, teneva in mano un lungo foulard di seta rossa e dirigeva un effetto speciale – la magica apparizione di una carrozza senza cavalli che avrebbe dovuto irrompere attraverso una parete. Me ne stetti un po’ discosto, a fianco di Marcello, a guardare questo grande regista che provava e riprovava instancabilmente la scena. Mi domandavo se egli impiegasse lo stesso tempo e la stessa cura per gli attori. Alla fine disse “Va bene”, ma non sembrava interamente convinto.

Fellini ci venne incontro e Marcello mi presentò. Fellini fece qualcosa che nessuno mi aveva fatto prima: prese il mio viso fra le mani e disse: “Che bella faccia.” Gli piaceva la mia faccia. Avrei voluto rispondere: “What a beautiful brain” – che bel cervello – e dirgli quanto il suo lavoro mi avesse sempre emozionato. Avrei voluto chiedergli cosa provava a esplorare nei film i propri sogni e le proprie fantasie, a non dover rispondere a nessun altro che a se stesso. Invece dissi semplicemente, “Grazie, Maestro.”»

Negli anni Ottanta Ben Gazzara è frequentemente di casa in Italia. Nelle pagine del suo libro parla di Pasquale Festa Campanile e di Ornella Muti (con la quale aveva già interpretato Storie di Ordinaria Follia – 1981- di Marco Ferreri, tratto dal romanzo ‘cult’ di Charles Bukowsky) e che ritrova al suo fianco per La Ragazza di Trieste (1982). E’ la storia di un disegnatore di fumetti il quale si innamora di una ragazza misteriosa che scopre essere pazza. Fu molto apprezzata la sua recitazione ed è indimenticabile il sorriso finale dell’attore, degno dei momenti più intensi raggiunti nei film Cassavetes.

«Qualche giorno dopo la fine delle riprese – racconta Gazzara – eravamo a pranzo con Pasquale a Roma nel suo ristorante preferito, e poco discosto da noi c’era Mastroianni in compagnia di un gruppo di amici. Vedendoci si avvicinò e mi disse in italiano: “Sono venuto a salutare la tua bella moglie.” Pasquale lo invitò a sedersi, ma prima lui ritornò al suo tavolo ad afferrare una bottiglia di grappa. Marcello era considerato un campione in fatto di grappa. Io gli stavo quasi alla pari. Elke era una principiante. Ma Pasquale poteva seriamente impegnarlo per la conquista della corona. Era in grado di sopportare qualsiasi bevanda alcolica e in quantità illimitata. Beveva molto e gli serviva per tener deste le energie in modo da poter girare film di giorno e scrivere romanzi di notte. Ma si avvicinava il momento in cui l’organismo di Pasquale non avrebbe più potuto reggere i danni. Troppo presto avrei perso quel nuovo amico.

Marcello era proprio il mio tipo. Nessuno lavorava più intensamente di lui, ma quando lasciava il set sapeva come distendersi. Elke gli chiese come mai quel giorno non fosse a Los Angeles per partecipare alla Notte degli Oscar (aveva avuto la nomination per Dark Eyes – Oci Ciornie). Le rispose che sarebbe stata una tortura passare tante ore in aereo fino in California e andarsi a sedere in una platea zeppa di gente, soltanto per assistere alla vittoria di qualcun altro. Oltretutto, trovarsi fianco a fianco con tutti quegli attori americani così muscolosi lo faceva sentire a disagio, inadeguato. Era stato intelligente a non andare. Non vinse l’Oscar

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1 Response

  1. Giovanni Scolari scrive:

    Io l’ho amato tantissimo in E tutti risero…

     

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