Vite vendute – Il salario della paura

Il nostro parere

Vite vendute (1953) FRA di Henri Georges Clouzot


A Las Piedras, quattro avventurieri, due francesi, un italiano e uno scandinavo, accettano di trasportare su due autocarri 900 chili di nitroglicerina a 600 km di distanza, necessari per spegnere un pozzo petrolifero in fiamme.


Henri-Georges Clouzot aveva quarantasei anni quando iniziò a realizzare Vite vendute, la sceneggiatura per la quale scrisse lui stesso insieme a Jérôme Géronimi (lo pseudonimo di suo fratello Jean Clouzot), basata su un romanzo dello stesso nome scritto da Georges-Jean Arnaud. Le riprese si sono svolte nel sud della Francia e il film è uscito a Cannes nel 1953 dove ha ottenuto il Grand Prix du Festival come miglior film, oltre che vincere l’Orso d’oro quale miglior film al Festival di Berlino nello stesso anno e il Premio BAFTA al miglior film internazionale nel 1955. Il cast è semplicemente maestoso con Montand, Vanel e Lulli bravissimi.

Dove siamo? È difficile dirlo. Caracas è vicina e c’è anche il petrolio. Fa caldo, c’è umidità, c’è la sensazione di essere all’estremità del mondo, in quel luogo che è il preludio alla morte, dove non c’è scampo, dove non c’è futuro. Siamo in un luogo cupo e torbido dove stranieri senza legge si confondono con parrocchiani senza identità né speranza. Qui l’autorità è venale, l’amore affittabile e la vita negoziabile: sono questi i primi minuti al mondo del settimo lungometraggio di Henri-Georges Clouzot, e uno dei thriller migliori e più oscuri che il cinema abbia mai visto.

Il microcosmo di questo film è una turbolenta babele dove francesi, ispanici, italiani, nordamericani e tedeschi si tollerano a malapena, intrappolati in una città emarginata da cui non possono scappare: non c’è lavoro, non ci sono soldi, ci sono debiti con la giustizia altrove. Sono lì per comodità, sonnolenti per il caldo, intontiti dalla malaria, barcollanti per l’alcol. Scarafaggi, mosche, venditori ambulanti, donne dagli occhi tristi, bambini che chiedono l’elemosina: amara, intensa e precisa è la descrizione che Clouzot fa di questo luogo di passaggio.

Trasmettendoci la sensazione permanente di barcollare su una corda tesa, la mdp di Clouzot si muove sottolineando l’enorme rischio che si corre in ogni curva, in ogni varco della strada, in ogni frenata imprevista che può far esplodere il carico.

Con il passare dei minuti la suspense si fa sempre più pesante e irrespirabile. Uno dopo l’altro, i disagi dei viaggiatori sembrano farsi più complessi, e vengono assunti senza alcun atteggiamento eroico, più con una smorfia di disgusto per l’enorme abisso in cui hanno sprofondato la loro vita e che li ha portati ad essere lì, sacrificabili e senza persone in lutto. Non si aggrappano a niente e a nessuno, ma sanno che nessuno li piangerà. Clouzot non ha pietà verso i suoi personaggi ed è per questo che il film è freddo e distante, riuscendo a produrre nello spettatore un misto di ansia e vuoto di fronte all’asciutta crudeltà delle sue immagini.

Tale dramma esistenziale si riflette esattamente in ciascuno dei protagonisti, burattini del destino. Per cosa vivere? Alla fine qui non ci sono vincitori, tutti sono vittime: del caso, della vita, del creatore. Clouzot non può evitare di ciò che pensava e professava. Il concetto che ha voluto lasciarci è quello dell’impossibilità di sfuggire alla colpa. Il carattere morale si riflette nell’immaginario religioso cattolico che vediamo nel film, presiedere silenziosamente i luoghi frequentati dai protagonisti. Questi personaggi a loro volta esemplificano i sette peccati capitali. Pertanto, Las Piedras è una metafora dell’inferno, a cui sono arrivati ​​​​a causa dei loro errori e peccati. Da lì non c’è scampo.

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