Il vegetale (2018) ITA di Gennaro Nunziante
Rovazzi, dismessi i panni del cantante, si traveste da attore per impersonare un giovane idealista laureato ma perennemente precario. Quando il padre, che non vede da tempo, entra in coma in seguito ad un incidente stradale si trova ad occuparsi della nuova famiglia con sorellastra annessa, nonchè dell’azienda paterna. Dopo aver scoperto che tutta la ricchezza del genitore era basata sull’imbroglio, la liquida ritrovandosi in una condizione difficile. Accetta così un nuovo lavoro da stagista che si rivela essere il raccoglitore di pomodori in un’amena località. Nel paesino trova però una specie di mentore, innamorandosi della maestra della sorellastra.
Il regista di Checco Zalone cerca di confermare il proprio successo disegnando il film su un personaggio assurto alla fama più per la verve che per la qualità delle canzoni. Come con Checco il protagonista mantiene il nome proprio. Rovazzi si chiama esattamente così permettendo al pubblico un ulteriore riconoscimento.
La sceneggiatura è un po’ qualunquista anche se ha il merito di evidenziare alcune problematiche connesse al mondo giovanile. I colloqui in cui richiedono specializzazioni per lavori con mansioni umili, fanno sorridere ma sono esattamente come avvengono anche se in forme meno manifesti. Non ti mandano certo a fare volantinaggio, ma l’impiegato sottopagato assolutamente sì. Come al solito, però, ci si limita a puntare il dito contro il malcostume senza indicare non la soluzione (che non può essere trovata da un film), ma la radice di questi mali. Di positivo c’è la tendenza del cinema italiano a smarcarsi almeno un po’ dai luoghi comuni. Dopo l’intemerata contro i “magna-magna” di Albanese in Come un gatto in tangenziale e lo smascheramento della “gente” avvenuto in L’ora legale di Ficarra e Picone, anche Nunziante restituisce dell’Italia un ritratto negativo in cui l’uomo comune cerca solo di fregare gli altri, piuttosto che risolvere i problemi.
Pensare che un idealista possa cambiare tutto fa happy end e morale della favola, ma suona più come un finale rattoppato che ad una visione della nostra nazione. Ed è questo che manca al regista. Non basta, infatti, descrivere il malcostume per diventare acuti osservatori della realtà, bisogna anche avere un’idea di come sia la nostra nazione. La sensazione è che qua non ci sia questa idea, forse che non ci sia alcuna idea di questo tipo.
Il prodotto è comunque accettabile. Rovazzi, però, non sembra avere un grande futuro nella recitazione. A differenza della spontaneità recitativa di Zalone, qua siamo alla meccanicità della lettura. Non ci siamo.