Fellini raccontato da un poeta: Valerio Magrelli

di Gianfranco Angelucci

Lo sciamano di famiglia è Federico Fellini nel libro di Valerio Magrelli uscito da Laterza, una delle letture più divertenti apparse in libreria, uno spasso di solleticante profondità, uno specchio, un miraggio dello sguardo, e anche un Gioco dell’Oca nel labirinto dell’eros, della pulsione, del desiderio, che è alla base della vita e della creazione artistica. Nel volume sono infatti riportati ben 77 disegni erotici di Fellini, molto espliciti, attraverso i quali Magrelli lascia fluire la sua saltellante narrazione, acqua limpida sulle pietre di un torrente che assumono sembianze e significato a seconda dell’incidenza della luce o della rifrazione dei raggi solari. C’è poi il capriccio delle coincidenze che partorisce le vicende private sospese tra “omeopatia, pornografia e regia”, come recita il sottotitolo di copertina. Connesse tra loro in che modo?

La madre di Valerio è medico omeopatico e tra i primi specialisti in agopuntura a Roma, cresciuta alla scuola del dott. Antonio Negro, leggendario precursore delle nuove terapie. Da lui negli anni Settanta si recava volentieri Fellini, immancabilmente curioso di qualsiasi disciplina alternativa che sfuggisse all’ortodossia e prefigurasse orizzonti ancora da scoprire. E qualche volta portava anche me nel celebre studio di Piazza Navona dove, distesi su un lettino, si veniva trafitti in tutto il corpo da lunghi aghi, esilissimi e flessibili, per sedute di circa mezz’ora; il tempo che il corpo impiegava a reagire prima di espellerli. La madre di Magrelli che a casa sperimentava su se stessa l’efficacia dell’agopuntura cinese, andava ad aprire a chi suonava alla porta incurante di apparire simile alla vergine dei sette dolori, con una aureola di spilloni sulla fronte, e ciò scoraggiava le visite dei compagni scuola di Valerio condannato, anche per questa ragione, a un’infanzia solitaria.

Magrelli è un poeta, ironico, colto, estroso, e la sua esposizione rapsodica bordeggia tra versi, figure, citazioni, scorci autobiografici, ricomponendo come in un arazzo il suo incontro con Fellini. Con la chimera del cinema in testa, grazie al prof. Negro, diventa “assistente raccomandato” per seguire le riprese di Casanova. Viene infilato di straforo nella squadra degli elettricisti, a contatto “con il popolo che forma il magico mondo della celluloide: una manica di stronzi. Veri stronzi da combattimento, tanto più tracotanti quanto meno importanti”. La sua posizione marginale lo obbliga “a orbitare nel cerchio più esterno (a occhio e croce sarà stato il ventesimo) di quella rosa mistica formata dal set. Perché Fellini, Fellini il Tolemaico, occupava il cuore di un vastissimo sistema gerarchico che si diradava via via alle estreme propaggini.” Nel ’76 Magrelli ha diciannove anni e perde la vocazione cinematografica; ma impara a conoscere l’universo felliniano attraverso quel film capolavoro sull’amatore veneziano che proprio quest’anno festeggia il 40° dalla realizzazione. Il futuro poeta ne illustra la messinscena e il retroscena come meglio non si potrebbe; non soltanto perché si innamora della bambola meccanica, ma perché si sofferma sulla musica di Rota con ferrata competenza, rivelandone, note alla mano, l’aspetto diabolico nell’uso del tritono. Magrelli comprende che “fontana di ossessioni, Fellini, come pochi altri beniamini della sorte, era riuscito nell’impossibile impresa di trasformare l’angoscia e il desiderio in forza-lavoro. La competenza della sofferenza e insieme della foia. Che cosa può volere di più, un uomo?”.

La sua ricognizione attraverso i prorompenti attributi, messi adeguatamente a nudo, delle formose creature femminili disegnate da Fellini, lo riconduce all’immaginifico Amarcord, alla prora del REX “sprizzante luce e schiuma tra le chiappe candide della Mer (per dirla in quel francese à la Debussy, che ci permette di ristabilire il genere femminile del maschile italiano “mare”)”; e alla Tabaccaia che “soffoca il giovane protagonista nelle abissali profondità del suo seno abnorme”. Il cinema di Fellini dunque come “mirabile motore mnestico” capace di ricondurre il bambino “polimorfo perverso” a varcare le “segrete porte dell’universo sessuale”. Il poeta lascia riaffiorare il gusto losco e vertiginoso per le “reliquie pornografiche sfogliate nelle edicole delle stazioni”; cita Lucrezio che accenna al turgore dell’adolescenza e ai “fiotti di liquido che imbrattano le vesti”. E conclude citando Karl Kraus: “Talvolta la donna è un utile surrogato all’onanismo. Naturalmente ci vuole un sovrappiù di fantasia”.

Passano gli anni, Magrelli che al cinema ha anteposto la poesia, pubblica un libro di versi che Federico casualmente (?) acquista, spesso incuriosito dai giovani autori. Lo chiama al telefono: “Sono Fellini…” “E io Bergman”, replica lo sciagurato riattaccando. La tipica reazione dei miracolati increduli e timorosi di perfidi scherzi. Il regista richiama, lo loda, gli propone di andarlo a trovare a Cinecittà dove sta girando Ginger e Fred. E’ luglio 1980, (ma qui il poeta sbaglia data, il film di quell’anno è “La città delle donne”) Valerio raggiunge il sultano questa volta da invitato, con tutti gli onori: superando dunque le molte corolle, si trova al centro della magica rosa: “Trascorrevo la mattina a osservare, chiacchierando con il Re-Regista”. Ora siede “sul Trono del Favorito. Sul trono accanto a lui!” Ricorda nei dettagli la pausa pranzo al ristorante dei Castelli, gli aneddoti su Gregory Peck, Mastroianni, Gustavo Rol; e le confidenze di Fellini sul progetto mai realizzato di Mastorna: “Me lo sono mangiato un poco alla volta ingoiandolo come una medicina, un veleno…”.

Trascorrono altri quattro o cinque anni, nuovo incontro accidentale, in pieno agosto, in Corso d’Italia. Il regista lo invita a salire con lui in ufficio, lì a due passi. Magrelli che ora è sposato, ha figli, trascorre le ferie a Sabaudia, continua a scrivere poesie. E un giorno, un amico della casa editrice Laterza, lo chiama per annunciargli un’incredibile sorpresa: nel primo brogliaccio di “Intervista sul cinema” di Fellini (1983) ci sono delle pagine dedicate a lui, ma cadute nell’ultima versione del libro. Federico, in colloquio con Giovanni Grazzini, lo cita, lo caldeggia, e svela che persino Andrea Zanzotto, al quale ha sottoposto alcuni suoi versi, si è espresso benevolo: “Ha il passo di una tigre”. Il lettore saprà a cosa allude questa mirabile espressione, imprecisa, che ne nasconde un’altra, sublime. E abbandonerà il libro, ormai alla fine, con acuto rammarico, una voglia sospesa di saperne di più. Si accontenterà dell’ultima poesia, fra le poche sparse tra le pagine, con cui Magrelli chiude il volume: un piccolo gioiello ancora fresco di stampa, profumato di inchiostro e di poesia.

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