Fellini – Biografia dell’infanzia

di Gianfranco Angelucci (tratto da Articolo21.org

Nel II secolo dell’era Felliniana si sta forse prefigurando una svolta. Arriva in libreria un testo in cui si parla di Federico Fellini – Biografia dell’infanzia, autore Davide Bagnaresi, editore Simone Casavecchia, vera colonna del cinema in carta stampata con l’ormai rilevante catalogo delle Edizioni Sabinae.

Fino a poco tempo fa se si voleva conoscere vita e miracoli del più celebre cineasta italiano, e forse mondiale, il riferimento imprescindibile rimaneva Tullio Kezich, che nel 1987, ancora vivo il regista, aveva pubblicato per Camunia la prima biografia completa sull’autore di 8 ½, intitolata laconicamente Fellini. Un testo ripreso in seguito dai Supersaggi della Biblioteca Universale Rizzoli (1988) e traslocato poi in alcuni altri domicili. Kezich è Mosè che guida la torma, un gran narratore, non soltanto di cinema. Basta rileggere le prime righe del ‘Prologo’:

“Il vero titolo del presente libro avrebbe dovuto essere «Confessione di un fellinista che, dopo aver rischiato di diventare felliniano, tenta di nobilitarsi come fellinologo».

Il riferimento è alle quattro categorie stabilite dal Seminario Internazionale di Siviglia del 1985: fellinizzanti, felliniano, fellinisti e fellinologi. “I fellinizzanti rappresentano la massa, sono tutti coloro che prediligono l’autore di 8 ½ ; i felliniani sono gli appartenenti alla cerchia familiare e di lavoro del maestro; i fellinisti sono gli amici del «comitato allargato», spesso scriventi; e i fellinologi sono gli studiosi scientifici del fenomeno”.

Non meno divertente è la chiosa sul proprio lavoro di scrittura:

“Fellini non è una biografia autorizzata e non è neppure una biografia non autorizzata. Si può definire una biografia sconsigliata, naturalmente dal protagonista; e con argomenti tanto validi che a volte hanno messo in crisi il biografo. Il quale, nelle situazioni di stallo, è stato rincuorato e rimesso in carreggiata proprio dal biografato, che subito dopo ha ripreso a sconsigliare”.

Kezich appartiene alla prima generazione, al pari del più anziano Angelo Solmi che scrisse la prima “Storia di Federico Fellini”; o di Sergio Zavoli, che al regista dedicò la ancora insuperata biografia televisiva: “Un’ora e mezzo con il regista di 8 ½”. Parliamo cioè di coetanei o quasi dell’artista, come Brunello Rondi, Tullio Pinelli, Bernardino Zapponi anch’essi autori di opere sull’amico regista.

Il critico triestino aveva persino raccontato in diretta, per la collana dal ‘Soggetto al film’ dell’editore Cappelli, l’intera lavorazione di La dolce vita, giorno per giorno: una lettura imprescindibile per chiunque voglia conoscere quegli anni, assurti presto a leggenda nel dolce inganno della memoria.

Segue una seconda generazione di logografi, quella anagraficamente dei figli, a cui appartengo anch’io, che sono entrato nell’entourage di Fellini alla fine degli anni Sessanta restandogli al fianco fino alla scomparsa. Siamo i testimoni oculari della seconda parte della carriera del regista, pronti a riferirne fedelmente il Verbo come discepoli devoti. Quindi in sostanza ‘felliniani’ in ragione della familiarità con il Maestro e ‘fellinisti’ nel momento stesso in cui riversiamo la nostra esperienza nei libri; della schiera fanno parte Liliana Betti, Giovanna Bentivoglio (che però centellina i suoi scritti), Aldo Tassone, Vicenzo Mollica e da ultimo anche a Marina Ceratto, figlia estrosa di Caterina Boratto.

Giunti però alla seconda decade del Terzo Millennio si affacciano sulla scena coloro che mai hanno conosciuto e neppure sfiorato il Maestro: è la terza generazione, dai quarantenni in giù, i più giovani, nella quale si distingue Davide Bagnaresi, folgorato di recente sulla via di Damasco. Laurea in Scienze Politiche, dottorato in Storia, estraneo alla Settima Arte ma dotato di una forte tempra di ricercatore, si imbatte quasi casualmente nell’opera di Fellini, del quale è concittadino, incaricato dall’Università Salesiana di organizzare un simposio su un tema importante: “Fellini e il Sacro”. Avventurandosi nei ricessi infantili dello sciamano, il giovane studioso si appassiona all’argomento più di quanto potesse sospettare, scoprendo presto, con il suo fiuto ben esercitato, che è vero, di Fellini è stato detto e riferito tutto, eppure l’indagine non è mai stata approfondita con la cura necessaria. Il fatale periodo di formazione che ne modellerà l’insuperabile fantasia, e che si conclude quando diciannovenne decide di lasciare le mura del Borgo per salire sul treno per Roma, resta sospeso in una nebbia leggera, privo di riscontri oggettivi. I compagni di scuola, gli amici di infanzia e adolescenza, a iniziare da l’avvocato Luigi Benzi, detto Titta o meglio il Grosso, non hanno mai lesinato vocalmente o per iscritto, il colore locale, con dichiarazioni estemporanee sul personaggio celeberrimo, suggestioni bizzarre, pubblicazioni occasionali. Di fatto non scarseggiano le notizie sull’infanzia del capo, ma non v’è alcuna certezza documentata su di esse, nessuna seria verifica storico-filologica, come pretende legittimamente la cultura universitaria alla quale Bagnaresi appartiene. Dall’inchiesta generale è rimasto pertanto scoperto un territorio piuttosto vasto da esplorare con gli strumenti opportuni; e il giovane studioso vi si getta con crescente, anzi rovente passione. Inizia componendo un saggio in cui cerca di scoprire quali siano i rapporti del piccolo Federico con l’ambiente ecclesiastico e l’educazione religiosa e, una volta afferrata la traccia della sua evoluzione vitale, ne segue pedissequamente le orme senza perdere un colpo.

Intanto sfata subito la leggenda che Federico sia stato concepito in un treno in corsa, secondo la versione prediletta dagli abitanti di Gambettola che vorrebbero riattrarre il genio all’interno delle proprie mura; e spazza via la vulgata che l’infante sia venuto alla luce in una carrozza ferroviaria, ipotesi adottata anche da Kezich per scrupolo di completezza. Il piccolo Federico è nato regolarmente a Rimini, in via Dardanelli, però a un numero civico che non è quello fino ad oggi supposto, come si desume dalle mappe catastali del tempo. I genitori, piuttosto squattrinati, avevano preso una stanza in affitto in una di quelle casette a schiera dei ferrovieri, non avendo altra scelta; si erano infatti sposati dopo una fuga romantica senza il consenso dei genitori di mamma Ida, e il papà Urbano era stato costretto ad abbandonare in fretta, insieme alla Capitale, anche una ben avviata attività di viaggiatore di commercio. Il loro futuro era completamente da inventare.

Capite che qui andiamo a nozze, tanto per rimanere in tema, e veniamo agganciati senza scampo in un nuovo vangelo, senza grotta e mangiatoia, ma punteggiato di inesorabili segni del destino. Su questa strada ormai spianata Bagnaresi modula la sua marcia investigativa ripercorrendo per noi, capitolo dopo capitolo, ogni passo e incontro del futuro regista: l’asilo dalle suore Cappellone, la prima esperienza giornalistica alle scuole inferiori, il liceo, la famiglia e gli affetti, le successive case riminesi, il cascinale dei nonni a Gambettola, il borgo con i suoi abitanti, il Grand Hotel, la fidanzatina, le prime prove da artista, fino alla partenza per Roma. Tutto documentato con estrema esattezza, frugando negli archivi, compulsando la stampa dell’epoca, setacciando i racconti orali dei sopravvissuti, e producendo un corredo fotografico sostanzioso.

Per una volta non chiacchiere e svolazzi retorici, ma fatti infilati a collana uno dietro l’altro con il rigore inflessibile dell’ispettore Javert e la mano solfeggiante del neofita ispirato, che si impegna a trasformare in nenia e melodia la cronaca apparentemente arida di una comune crescita in provincia.

La mancanza di esperienza diretta con l’artista conduce Bagnaresi a inaugurare un nuovo genere di resoconto, tanto attendibile sul piano della concretezza, quanto lieve nell’aura della favola bella. Prende l’avvio con lui un diverso studio del grande Fellini, non intaccato dal sentimento personale, a volte sviante, di chi lo frequentava e tuttavia non privo di spirito evocativo. Una narrazione che ci riconsegna inevitabilmente all’ondivago tessuto autobiografico dei film: la trama dei racconti felliniani potrà ora poggiare solidamente sull’ ordito offerto dal giovane studioso riminese. Al quale suggeriamo di non fermarsi alla prima stazione, ma di inoltrarsi fiduciosamente nella promettente prateria, ricostruendo con identico metodo e rigore ogni periodo di vita e di arte dell’artista italiano più celebre nel mondo.

Del resto ormai chi scrive di Fellini è al riparo da ogni contraccolpo; mai avrà la ventura di essere raggiunto dalla zampata superlativa dell’amato Maestro, come accadde invece a Tullio Kezich, il quale il 25 dicembre 1985, giorno del Santo Natale, ricevette da lui la telefonata che riferisce parola per parola nel suo libro:

«Molti dicono che sono un bugiardo e lo ripetono continuamente, Ma anche gli altri dicono bugie; e le più grandi bugie su di me le ho sempre sentite dagli altri. Potrei smentirli, ho tentato. Purtroppo, essendo un bugiardo, nessuno mi crede. Ti assicuro che fanno tutti così: alla fregnaccia del fregnacciaro aggiungono un’altra fregnaccia. Si ostinano a raccontare cose che non sono mai accadute; e, se mi scappa da dire “non è vero”, sembra che tolgo un puntello alla loro vita…»

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