Il matrimonio che vorrei

di Gianfranco Angelucci

Il pubblico sembra divertirsi (moderatamente), indeciso tra la risata e l’imbarazzo, assistendo a “Il matrimonio che vorrei”, il titolo del momento che ha già totalizzato negli Stati Uniti quasi 70 milioni di dollari, e da noi mantiene un dignitoso sesto posto nella classifica degli incassi. Il film narra le difficoltà di relazioni

intime in un matrimonio trentennale decisamente bollito, ma la storia non convince e non diverte nonostante la presenza di due autentici campioni come Meryl Streep e Tommy Lee Jones. Il testo di Vanessa Taylor è pigro, risente di una staticità teatrale e la regia di David Frankel, già sugli allori per “Il diavolo veste Prada”, non lo aiuta abbastanza. Mettere in scena una coppia anziana che non ha più rapporti sessuali, è una di quelle scommesse che richiedono il talento di Billy Wilder, di un commediante di razza dello stampo di Walter Matthau; oppure ci sarebbero voluti Spencer Tracy e Catherine Hepburn dei tempi d’oro, battuta contro battuta in un fuoco di fila che non concede tregua. E’ una questione di tempi, di ritmo, di incastri perfetti da sophisticated comedy. Arnold e Key dormono ognuno in una camera da letto diversa e a colazione l’unico dialogo è il buon giorno prima di tuffarsi a testa bassa tra le pagine del giornale. Poiché il letargo coniugale non accenna a presagire trasalimenti d’alcova, Key decide di rivolgersi a uno specialista di chiara fama, il dottor Feld, di cui ha letto un libro trovato tra gli scaffali del supermercato; raccoglie i suoi risparmi, acquista i biglietti aerei e costringe amorevolmente il marito a seguirla in un piccolo paese del Maine dove lo psicologo riceve nel suo studio a tariffa oraria. Il pover’uomo la segue, più irritato che rassegnato, e naturalmente oppone robuste resistenze durante i colloqui con il terapeuta, al cui confronto Paolo Crepet è un allegro mattacchione. L’esortazione è a parlare liberamente, senza censure, manifestare le proprie insoddisfazioni di letto, confessare i pensieri riposti, spiattellare le pulsioni proibite, i desideri inconfessati. Tutto quel parafernalia della sessualità da laboratorio che piace tanto agli americani e che dovrebbe servire a riaccendere il desiderio. Ma l’unico desiderio dello spettatore è che ciò non avvenga almeno davanti ai suoi occhi, timoroso di essere costretto ad assistere a performance sessuali tra due anziani grinzosi e malfermi. Meryl Streep è un’attrice eccelsa, la sua interpretazione ne “I Ponti di Madison County” credo rimarrà nella leggenda; ma ha superato i sessant’anni e, per favore, tutto vorremmo vedere tranne le sue cosce! Per fortuna si trattiene appena in tempo, limitandosi alle sottovesti scivolose sulle spalle grassocce. Ma non rinuncia a portare avanti con baldanza i suoi tentativi di seduzione e alla fine riesce a risvegliare Pisolo, il nano dormiente. Arnold sembra sconvolto, e noi più di lui. A dimostrazione che gli affari privati di coppia, segnatamente a una certa età, si risolvono meglio nella riservatezza; il pubblico non è ammesso. Non soltanto per onore all’antico adagio “tra moglie e marito non mettere il dito” (figurarsi gli occhi!), ma anche perché i corpi, la sessualità, le smancerie, sullo schermo pretendono carne fresca, la sensualità del turgore, della levigatezza, dell’innocenza, della scapataggine. Superata una certa stagione meglio stendere un pietoso velo. Il che non significa che non possiamo desiderare la nostra compagna di giochi fino a ottant’anni, se è lei che amiamo, se i nostri occhi continuano a vederla come quando l’abbiamo incontrata. Anzi è meraviglioso che ciò avvenga, invidiabile sotto ogni aspetto. Ma non dimenticando mai che i nostri occhi non sono quelli degli altri. “A sessant’anni – diceva Fellini, maestro in tutto – se hai qualche avventuretta, meglio attendere sotto un lenzuolo.” L’ho trovato sempre un consiglio superbo per classe e saggezza. E poi, andiamo, ma davvero c’è bisogno di uno specialista anche per rinfocolare antiche braci estinte? Noi latini ce la caviamo fantasiosamente meglio.

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