Il gusto del Sake

Il nostro parere

Il gusto del sake (1962) JAP di Yasujiro Ozu


Il signor Hirayama, vedovo, vorrebbe che la figlia si sposasse. Intanto l’uomo organizza una festa per un ex insegnante, il Tasso, ora in pensione. Quest’ultimo è diventato un ubriacone e gestisce un piccolo ristorante.


Se le immagini iniziali dello straordinario film “Tarda primavera” (1949) ci mostravano la vegetazione attorno a una piccola stazione ferroviaria mossa dalla brezza leggera, “Il gusto del sakè”, rivisitazione dell’opera precedente e ultimo film di Yasujiro Ozu, si apre con l’inquadratura di enormi ciminiere industriali, che ricorreranno lungo tutto il film, sostituendo le tipiche inquadrature di panni stesi presenti nella filmografia del regista.

Siamo già negli anni Sessanta e il tradizionale padre di “Tarda primavera” (lo stesso Chishû Ryû, protagonista di “Il gusto del sakè” e interprete di tanti padri e nonni nei film di Ozu) è ora un vecchio dirigente che vede come la società giapponese si è trasformata sotto l’influenza occidentale. “Abbiamo perso, e ora i giovani muovono il sedere a ritmo di jazz”, si lamenta il suo ex subordinato nell’esercito Sakamoto (Daisuke Katô), mentre discute di contraccezione con il suo primogenito, Koichi (Keiji Sada), un immaturo impiegato che si arrabbia perché non può comprarsi delle mazze da golf, proprio come i bambini di “Buongiorno” (1959) facevano perché non potevano guardare la televisione.

Ma se la società giapponese è cambiata, non così le paure e le speranze delle famiglie, e Ozu insiste sulla perenne storia che costituisce gran parte del suo universo filmico: l’inevitabile solitudine a cui sono destinati i genitori una volta che i figli lasciano la casa per intraprendere le loro vite. “Sono solo e triste. L’uomo finisce sempre solo”, si lamenta il vecchio professore “zucca” (Eijirô Tôno) davanti ai suoi ex studenti durante una cena in suo onore, e Hirayama rifiuta di accettare lo stesso destino, non per la solitudine in sé, ma per la triste situazione della figlia di quest’ultimo, condannata al celibato per essere rimasta a prendersi cura del padre durante la sua giovinezza (la scena della figlia, Tomoko – Haruko Sugimura, che scoppia in lacrime accanto al padre ubriaco è una delle immagini più toccanti del film). Hirayama cerca quindi di convincere sua figlia, Michiko (Shima Iwashita), ad accettare il matrimonio con un pretendente suggerito dal suo amico Kawai (Nobuo Nakamura).

Ozu racconta la storia con la sua consueta messa in scena (inquadrature fisse all’altezza del tatami), utilizzando poco più di sei scenari (le case di Hirayama e Koichi, l’azienda in cui lavora Hirayama, il locale dove il protagonista si incontra con i suoi amici, il bar del “zucca” e il bar Tory’s), sempre con una struttura identica all’inizio di ogni nuova sequenza: un’inquadratura dell’ambiente (sempre la stessa per ogni luogo: un corridoio, l’ingresso della casa, un’insegna luminosa o il bancone del bar) che introduce la scena successiva. Questa ripetizione della struttura interna di ogni sequenza permette di introdurre sottili variazioni che segnano la progressione drammatica della storia: le sequenze che si svolgono a casa di Hirayama, per esempio, iniziano sempre con l’inquadratura dell’ingresso della casa in cui vediamo Michiko accogliere il protagonista al suo ritorno dal lavoro (fotogramma 3); un’inquadratura che apparirà completamente vuota (evidenziando l’assenza della figlia) nell’ultima sequenza del film, al ritorno (che non vediamo) di Hirayama dopo il matrimonio di Michiko (fotogramma 4). Un altro esempio di variazione, questa volta sulla composizione dell’inquadratura: in quasi tutte le scene che si svolgono nel salone della casa di Hirayama, lui è situato a sinistra dell’inquadratura, guardando verso destra (dove si trova uno dei suoi figli – fotogramma 5); tuttavia, nella sequenza precedente al matrimonio di Michiko, mentre lei si sta vestendo per la cerimonia, vediamo Hirayama seduto a destra dell’inquadratura, guardando verso il fuori campo e lasciando lo spazio vuoto alle sue spalle (fotogramma 6 – di nuovo, il vuoto provocato dalla imminente partenza di Michiko).

Nonostante il tono apparentemente leggero, presente soprattutto nelle sequenze degli incontri di Hirayama con i suoi amici, Horie (Ryûji Kita) e Kawai (attraverso i commenti scherzosi sulla giovane moglie di Horie o con le battute che si scambiano spontaneamente), il film è pieno di momenti emotivi: Hirayama che ricorda la moglie defunta nel volto della giovane proprietaria del bar Tory’s; Michiko, di spalle, seduta davanti al tavolo da toeletta nella sua camera, che si volta tristemente a guardare Hirayama (subito dopo aver accettato il matrimonio che lui le propone), o che alza timidamente lo sguardo quando il padre la osserva vestita per la cerimonia nuziale; l’inquadratura successiva della sedia davanti allo specchio, ora vuota; e, naturalmente, l’inquadratura generale che chiude il film, con Hirayama, in fondo all’immagine, che si serve un tè e si siede da solo in cucina dopo la partenza di Michiko, rappresentando il bellissimo epilogo di tutta una filmografia, seguendo una delle massime ripetutamente espresse dal regista: “Non credo che l’uso del primo piano sia sempre il più efficace per dare enfasi a una scena triste. A volte, un eccesso di drammatizzazione può produrre l’effetto opposto. Per questo, quando devo girare una scena davvero triste, penso sempre che riprenderla da lontano non risulterà così invadente e sarà meno costrittiva, più penetrante”.

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