In nome del figlio (Venuto al mondo di S. Castellitto; Tutti i santi giorni di P. Virzì)

di Gianfranco Angelucci

Il romanzo di Margaret Mazzantini “Venuto al mondo”, m’era parso un pastrocchio insopportabile, neppure da paragonare al suo nitido esordio, “Il catino di zinco”, né al melodrammatico e intenso “Non ti muovere”. Un racconto convulso, eccessivo, un fiume lutulento senza argini, schiumante di spazzatura. Nell’ambiente del cinema si dice che è più facile trarre una bella sceneggiatura da un brutto romanzo che il contrario; una regola che mi sembra assolta anche in questo caso, in cui Sergio Castellitto travasa sullo schermo per la seconda volta una storia partorita dalla moglie, eleggendo di nuovo a protagonista la brava Penelope Cruz.

Il film non è un capolavoro, tagliato rozzamente, con attori non perfettamente a fuoco e con qualche sequenza di troppo (dura più di due ore, 127’); però coinvolge, ed è toccante la via crucis di una giovane donna dagli ovuli ciechi, che a circa trent’anni avverte l’imperioso richiamo del ventre. Gemma non potendo fare figli con il fotografo di guerra che ha sposato dopo il divorzio da un marito insipido, torna a Sarajevo stravolta dalla guerra del 1992 per ‘affittare’ il ventre di una ragazza disperata mettendole tra le lenzuola l’uomo amato e più giovane di lei. Forse proprio grazie all’espressività mediterranea della Cruz e all’ambientazione nei Balcani, la vicenda invia a tratti bagliori da tragedia greca. Invece si tratta di un dramma moderno e attualissimo, riguarda la piaga dei grembi che non producono più figli e che a scorno di tutte le rivendicazioni femministe sta gettando la donna delle società opulente in una nevrotica, disorientata, disidentificazione. Il laboratorio della vita fieramente rinnegato viene a un certo punto inseguito come ultima salvezza.

Ed è indicativo che nella stessa stagione, quasi negli stessi giorni, sebbene con caratteri espressivi completamente diversi, escano due film sullo stesso tema. Il secondo appartiene a Paolo Virzì, dunque in chiave di commedia, e si intitola “Tutti i santi giorni”. Anche qui una ragazza dal passato turbolento (la cantante Marzia Gandolfi chiamata sul set con il nome di Thony) trova un porto sicuro accanto a un marito giovane come lei, colto, dolce, comprensivo; un’apparizione nel suo orizzonte disastrato. Un figlio sarebbe il naturale coronamento dell’incontro fortunato, ma in sei anni di convivenza lei non riesce a rimanere incinta, e questa mancanza, questa assenza di fertilità la logora come una lima sorda, la rende infelice, la spinge a comportamenti autodistruttivi.

Il finale è aperto con una soluzione forzatamente onirica di chi non sa come concludere la storia; e la marcata caratterizzazione da borgatara siculo-romana di Antonia in contrapposizione alla solida e colta famiglia toscana del marito (a interpretare la madre viene indicativamente chiamata Benedetta Barzini) appartengono a poco convincenti trovate di sceneggiatura. Entrambi i film condividono il difetto di essere troppo ‘scritti’ per poter aspirare alla misteriosa, impalpabile verità che pretenderemmo sempre dalle opere riuscite. Però da esse si trae l’impressione che il cinema italiano, quel poco che ne rimane, sia pure in maniera arruffata, incerta, maldestra, si stia riavvicinando ai temi autentici della vita, cercando una strada alla propria impotenza creativa. Nell’opera di Virzì inoltre si assiste alla sorpresa di un valente protagonista, il giovane romano Luca Marinelli, goffo, occhialuto, che intenerisce con i capelli lisci sugli occhi, parla credibilmente toscano per tutto il tempo e ci induce a credere contro ogni diffusa tendenza che gli uomini possano essere meglio delle donne. I due film godono di contributi finanziari e altri benefici sia dello stato che di svariati enti pubblici, quindi non sapremo mai cosa valgono sul piano del mercato. Ma il pubblico sta rispondendo in maniera promettente; ci penserà lui, come è giusto, a educare gli autori sinceri e a smascherare gli imbroglioni.

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