Gravity di Alfonso Cuaron

di Gianfranco Angelucci

Occhialetti per il 3D sul naso, proiezione digitale in una sala modello come la Multiplex Cine Palace di Riccione, questa avventura spaziale in chiave domestica, simile a una drammatica gita fuori porta, mi è parsa geniale. Non so se, come ha detto James Cameron che se ne intende, si tratti “del miglior space movie mai realizzato”, ma in ogni caso non capisco la tiepida accoglienza ricevuta in Italia, che evidentemente la lunga crisi economica ha reso ormai catatonica.

Il messicano naturalizzato statunitense Alfonso Cuaròn, immagina una missione spaziale di tutto riposo per la riparazione in sito di un telescopio orbitale, una cosetta da meccanici. Mentre gli altri lavorano fluttuando nel vuoto gravitazionale, il capo missione Matt Kowalsky, George Cloney, se la spassa manovrando il suo zaino jet e danzando intorno alla piccola stazione come fosse al lunapark. Quando all’improvviso arriva un allarme dalla base di Houston; un satellite russo è andato in pezzi e lo sciame di detriti sta per investire in pieno la squadra. L’ingegnere biomedico Dottoressa Ryan (Sandra Bullock) imprudentemente si attarda e l’impatto è micidiale: lo shuttle viene distrutto, il resto dell’equipaggio è spazzato via. Ryan e Kowalsky restano isolati nello spazio, senza più contatti radio con la terra, con scarsa riserva di ossigeno e con quell’unico mezzo di locomozione che basta a stento a una persona.

Il comandante aggancia la fanciulla e cerca di raggiungere una ‘stazione spaziale internazionale’ a qualche chilometro di distanza. L’impresa disperata riesce, ma solo in parte; pur di permettere alla collega di mettere piede sulla Sojuz di salvataggio, il comandante si stacca da lei perdendosi nel vuoto siderale. Un eroe con i capelli grigi e il sorriso guascone di George che vede svanire in quel gesto, proprio all’ultima missione, la sua vagheggiata pensione sul pianeta. La storia va avanti con contraccolpi non rivelabili, ma se la dottoressa Ryan rientrerà nell’atmosfera terrestre con un ammaraggio di fortuna, sarà soltanto grazie all’estremo sacrifico dell’amico carismatico. Scoprirete in che modo.

Il film possiede una presa avvincente proprio perché non racconta un’avventura epica, ‘fantascientifica’, ma una vicenda di ordinaria routine fuori dall’atmosfera terrestre, uno scenario praticamente dietro l’angolo, forse già pronto per i nostri figli. Lo spazio con la sua mancanza di gravità, e di ossigeno, senza il quale l’organismo cessa di vivere, fa da sfondo alla grandezza cosmica dell’uomo, eterno Ulisse dantesco pronto a sfidare qualsiasi ignoto; e allo stesso tempo ne rivela l’inconsistenza e l’immensa fragilità.

La Terra, laggiù in fondo rimane pur sempre la casa a cui è bello tornare; Kowalsky si incanta a guardare l’aurora sul Polo Nord o l’alba sul Gange, e il suo sentimento struggente è anche la nostra infinita nostalgia per un Assoluto che non riusciamo ad afferrare. Ci voleva la faccia di Clooney per esprimere tutto ciò nella fuggevole ombra di un sorriso, il tocco di grazia di un grandissimo attore. Dove sarà finito Kowalsky, corpo senza vita e senza peso perennemente ruotante intorno alla Terra? Dove i suoi sogni, i suoi desideri, le sue attese? Che cos’è l’universo e perché ne facciamo parte? Interrogativi puerili, tuttavia gli unici ad affiorare con insistenza mentre ero calamitato dallo schermo che il 3D dilatava fin quasi alla vertigine della verità. Un’impressione mai più provata dal tempo di “2001 Odissea nello spazio”. Cuaròn autore di sentimenti primari (ricordate “Y tu mamá también”?) non è Kubrick e ne è consapevole; con un soggetto tanto esile non c’era da azzardare, e non ha lasciato che la sua bella intuizione naufragasse nella banalità degli effetti speciali.

Potrebbe piacerti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Email