Il colosso d’argilla – E’ la stampa

Il nostro parere

Il colosso d’argilla (1956) USA di Mark Robson

Un ex cronista sportivo si fa coinvolgere in un’impresa disonesta per lanciare un pugile con una serie di incontri combinati. Il pugile è un gigante di oltre due metri, imponente, che non sa boxare e che viene da una storia di sfruttamento.

Il personaggio del pugile è ispirato a Primo Carnera, ma il protagonista assoluto è Bogey che interpreta il suo personaggio standard, ovvero un uomo brillante disilluso dalla vita, demotivato,  che sa ritornare se stesso quando sono in gioco i valori.  Era così in Casablanca, L’ultima minaccia (è la stampa bellezza!) e in tante altre pellicole.

E’ anche l’ultimo film di Bogart, morto l’anno dopo a 57 anni appena compiuti, la sigaretta pendula dalle labbra, il parrucchino appena nascosto, il volto segnato da una vita intensa, ma anche attore magnetico, realizzatosi solo in età matura.

Anche qua è lui il baricentro dell’opera, contrappuntato da un ottimo Rod Steiger, confinato allora nei ruoli di vilain, esattamente con Bogart anni prima. I suoi moti di coscienza sono i nostri, le sue titubanze sono comprensibili, per quanto si nasconda dietro una patina di cinismo.

Robson dirige un film per l’epoca brutale ma onesto, capace di aprire gli occhi a molti sul dietro le quinte del mondo della boxe. Con furia e velocità che fa venire le vertigini per una decina di round, descrive un mondo corrotto e marcio che punta solo al guadagno a spese dei pugili, usati come pezzi di carne e destinati alla povertà, alla morte.

Il ritratto del manager, un Rod Steiger implacabile, è stridente, cattivo così come l’etica del giornalista, pronto a tutto. Piuttosto, l’anelito di coscienza che lo coglie è abbastanza improbabile, ma sappiamo le necessità hollywodiane di garantire un happy end.

Si tratta, però, di un film vivace e pungente, efficace nella recitazione, duro nella condanna di certe pratiche.

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