Il brigante di Tacca del Lupo – Un momento di storia italiana

di Giovanni Scolari

REGIA: Pietro Germi

SCENEGGIATURA: Pietro Germi, Federico Fellini, Tullio Pinelli, Fausto Tozzi FOTOGRAFIA: Leonida Barboni MONTAGGIO: Rolando Benedetti MUSICHE: Carlo Rustichelli PRODUZIONE: LUIGI ROVERE PER ROVERE – CINES- LUX

ATTORI: Aldo Bufi Landi, Cosetta Greco, Amedeo Nazzari, Vincenzo Musolino,

IL FILM

Prodotto dalla Lux di Gualino, una realtà importante in cui crebbero i due più significativi italiani produttori del dopoguerra: De Laurentis e Ponti. Il film venne presentato in anteprima alla Mostra di Venezia del 1952. L’accoglienza della critica fu negativa perché a Germi si rimproverava l’assenza di analisi storica. Molti critici avevano sperato in una ripetizione del film 1860 di Blasetti, una versione agiografica di un evento storico successivo all’Unità. Altri contavano su una ripetizione dei contenuti e dello stile dell’opera precedente di Germi, IN NOME DELLA LEGGE, che aveva affrontato l’argomento Mafia in anticipo sui tempi.

La decisione di impostare il film in termini spettacolari, sfruttando il parallelismo Risorgimento/Western, richiamando il cinema di Ford in particolare, viene, invece, considerata come un grave errore, una scelta opportunistica, da parte della critica marxista. A posteriori, nella pregevole opera di Mario Sesti, “Tutto il cinema di Pietro Germi”, si parla di una sorta di “Barocco verista” per l’attenzione maniacale al dettaglio d’ambiente o alla cura dei costumi.

Il film è tratto da un racconto di Bacchelli e sceneggiato da Tullio Pinelli, dopo un primo lavoro di sgrezzatura del soggetto in tandem con il suo sodale Federico Fellini. Tra coloro che parteciparono al film sono da ricordare collaboratori quali il direttore della fotografia Leonida Barboni (essenziale per la riuscita dell’opera) ed il fratello di Fellini, Riccardo, più tardi famoso come interprete de I VITELLONI, coinvolto in qualità di assistente alla regia. Importante anche il ricordo di uno dei migliori caratteristi del cinema italiano del dopoguerra, Saro Urzì, che a Germi deve una serie di personaggi memorabili, tra cui il famoso Don Ascalone di SEDOTTA E ABBANDONATA, per cui ricevette il premio di miglior attore al Festival di Cannes.

PIETRO GERMI: LA VITA ED IL REGISTA

Pietro Germi (1914-1974) era un personaggio particolare nella scena del cinema italiano del secondo dopoguerra. Odiava la cultura intesa come rito, ambiente professionale. Amava, invece, gli ambienti informali come le osterie dove, probabilmente, studiava l’umanità. Si tratta di un’attenzione maturata negli anni giovanili quando, orfano di entrambi i genitori, fu cresciuto dalle sorelle. Forse per dispetto, più probabilmente per tono di sfida, bazzicava quei luoghi invitando spesso a casa qualche stravagante avventore. La sua estrazione sociale non era povera, ma i difficili rapporti con i familiari resero problematici gli anni dell’apprendistato cinematografico. Alle sorelle, infatti, rimproverava di non averlo aiutato economicamente nel periodo passato al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Il suo carattere irascibile ed indomabile lo fece scontrare anche con uno degli insegnanti di religione che ebbe, vale a dire Giuseppe Siri, poi potentissimo cardinale in qualità di presidente della CEI dal 1959 al 1965.

Solo la sua caparbietà gli consentì di entrare nel CSC che ha frequentato insieme a personalità di grande spessore come Corrado Alvaro, Pietro Ingrao, Mario Panunzio, Vittorio Cottafavi, Steno, Luigi Zampa, Alida Valli, Arnoldo Foà. In quella sede, però, venne subito adottato da personaggi quali Blasetti che ne comprese il talento, proteggendolo agli inizi della carriera.

Durante la sua esistenza ha sempre avuto forti amicizie e grandi passioni. Professava la religione dell’onestà e della coerenza fin nelle sue estreme conseguenze. Era socialdemocratico in virtù dell’ammirazione sconfinata che nutriva per Saragat. Una scelta certo non facile nel periodo storico in cui visse e, soprattutto, nell’ambiente lavorativo che frequentava dove gli esponenti della sinistra marxista erano in assoluta maggioranza. In più era ferocemente anticomunista. Epici, infatti, furono i suoi litigi con gli amici di sinistra al caffè Rosati che negli anni ’50 rappresentava uno dei ritrovi più importanti dell’intellighenzia italiana. La fede politica non gli impedì certo di avere rapporti di amicizia e stima verso autori come Mario Monicelli (per esempio) che pure erano immersi in quel milieu culturale. Tuttavia, aveva una morale, rigida e inflessibile, che lo guidava costantemente fino al punto da fargli rompere lunghe amicizie. A Fellini (sceneggiatore di fiducia per quattro film dal ’48 al ’52) non perdonò mai di aver realizzato un film come LA DOLCE VITA. A distanza di anni, infatti, rinfacciava ancora a Pinelli la partecipazione a quella sceneggiatura

Il carattere irascibile si riverberava anche nei suoi rapporti con la stampa. Disprezzava, infatti, la critica al punto da progettare diverse aggressioni che non finalizzava solo perché dissuaso dagli amici come Fellini e Pinelli.

Se non sminuisse la sua figura, si potrebbe considerare Germi come un regista di genere americano, molto vicino ad autori come Ford o Hawks. Germi non era solo questo. Aveva una concezione del cinema molto forte e ha saputo tracciare il ritratto dell’Italia postbellica come nessun altro. Ha toccato tutti i generi: la commedia (La definizione “Commedia all’italiana” è tratta dal suo celebre “Divorzio all’italiana”), il noir, il melodramma, la satira, il western, il dramma sociale. L’ultimo film, mai completato per la malattia che l’ha ucciso, doveva essere AMICI MIEI. Un ultimo graffio all’Italia completato dal suo amico Monicelli. La notizia della sua scomparsa giunge proprio mentre si sta battendo il primo ciak.

NOTE CINEMATOGRAFICHE

Il film inizia e conclude sulle note di un canto popolare, una delle grandi passioni di Germi tanto è vero che ritornano spesso in tanti suoi film come IL FERROVIERE, dove lo stesso regista si ritrae mentre stornella con i clienti di un’osteria, esattamente come amava fare nella realtà, quando si mescolava al popolo più umile per comprenderne gli umori, i caratteri. La musica, il canto popolare è l’elemento unificante tra il popolo e i soldati, nonostante la povertà, la fame, la disperazione e la morte. Con la musica tutto viene dimenticato, sia pure per poco, e le differenze si spengono.

Fortissimo ed evidente è il richiamo, l’omaggio al cinema di genere americano ed in modo particolare al Western. Gli elementi western visibili in tutta l’opera sono:

• L’uso dei paesaggi, sfondo ideale delle vicende come la Monument Valley era per Ford. In questo è prezioso l’uso del Bianco e Nero che esalta l’abbagliante presenza delle rocce

• La colonna sonora giocata sulle tonalità dalla tromba. Il finale mostra il classico “arrivano i nostri” sulle note dello strumento a fiato.

• Il tipo di inquadrature (in stile tipicamente fordiano) ricche di primi piani intensi, di panoramiche mozzafiato, di contrasti.

• Il protagonista è modellato sugli eroi western come John Wayne. Gli stessi bersaglieri si muovono come l’esercito de I CAVALIERI DEL NORD OVEST. Nazzari è sempre davanti, come Wayne, a rischio della vita.

Tra i difetti, si può sottolineare una certa debolezza nei dialoghi tra contadini e soldati. Nelle conversazioni tra soldati c’è il tentativo di rappresentare l’Italia come popolo unito, ma non sempre lo scopo viene raggiunto per la stereotipata caratterizzazione dei personaggi, confinati talvolta in macchiette di carattere dialettale.

Germi parte con uno sguardo aperto sul conflitto che ha insanguinato le regioni del sud, ma utilizza schemi storiografici classici. Per lui lo stato borbonico era una sentina di vizi, un regime corrotto, incivile ed arretrato; alla stessa maniera è il nord che porta il progresso.

Soldati e briganti non sono però ritratti in modo manicheo. Germi evidenzia le bestialità reciproche, la lotta tra morale e giustizia. Sotto questo aspetto l’opera è molto moderna.

IL FILM E L’UNITÀ D’ITALIA

“Una nazione può cessare d’esserlo. La nazione infatti non è una struttura fissa e indistruttibile. [….] La nazione è una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità tra i cittadini.”

“Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Queste frasi sono genericamente attribuite a Massimo d’Azeglio e sono utilizzate per spiegare le difficoltà insorte con la nascita del Regno d’Italia.

“Da diversi anni la crisi cronica in cui versa – e non solo in Italia – lo Stato nazionale e la comparsa al Nord di un movimento come la Lega hanno portato, anche nel Sud, storici e pubblicisti a ripensare la vicenda unitaria, i modi in cui si è pervenuti all’indipendenza, il trattamento riservato alle regioni meno evolute. Ormai non si contano più gli scritti che rifanno, ancora una volta, il processo al Risorgimento e rievocano le grandi figure della cultura meridionale e non solo settentrionale, che criticarono, anche aspramente, i modi ed i tempi dell’unificazione.”

Queste tre citazioni spiegano chiaramente il motivo della scelta di questo film che apre il cineforum dedicato ai 150 anni d’Italia. Dopo l’unità d’Italia, infatti, si è verificato questo vasto movimento popolare (passato alla storia come Brigantaggio) che ha subito reso difficile il processo di integrazione del sud all’interno del neonato stato nazionale.

La pellicola di Germi sposa appieno l’interpretazione storica che venne data agli eventi da parte della maggioranza degli storici fino pochi anni fa. La visione di uno stato borbonico corrotto, incapace ed insensibile ai bisogni dei cittadini ha soddisfatto l’agiografica visione dello stato nazionale sorto come esigenza del popolo, come volontà della classe dirigente, come un percorso rettilineo in cui tutti (Re, Cavour, Garibaldi, Mazzini) avevano contribuito allo scopo di restituire orgoglio, dignità ed identità nazionale all’Italia.

Tuttavia, Germi inserisce diversi elementi che saranno alla base di molte riflessioni e di una rivisitazione di quegli anni. Naturalmente, è una semplificazione ridurre la storiografia a quanto detto, poiché da sempre ci sono stati studi di grande spessore che hanno evidenziato le lacune, le carenze, le ingiustizie che portarono all’annessione del sud al regno dei Savoia.

IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO serve, quindi, per sottolineare queste storture, cominciando a ragionare sul processi che sono alla base della nostra identità nazionale.

LA STRUTTURA STORICA

Il film è ambientato in Lucania nel 1863, l’anno di approvazione della Legge Pica . La didascalia che apre la pellicola ricorda che ”L’entusiasmo del passaggio liberatore di Garibaldi” si è tramutato in rimpianto del re Borbone. I contadini sono afflitti da una “povertà antica”, sono miseri e delusi e si contrappongono ai SOLDATI DEL NORD. Si parla anche di CRUDELE GUERRIGLIA. Ricordiamo anche che si parla di uno scontro che vide 80.000 briganti circa (raggruppati in quasi 500 bande nel corso dei diversi anni) contro un esercito formato da 120.000 effettivi.

Il ritratto sociale che emerge dal film è molto chiaro, netto delineato. I Baroni sono descritti come imbelli, inaffidabili, superficiali; la Borghesia è disprezzabile, conformista, paurosa; il popolo è un soggetto passivo e inerte. Tutti sono lontani dalla realtà politica rappresentata dalla presenza dei “piemontesi”. Solo Carmine si muove, ma lo fa per questioni d’onore, non certo in difesa del nuovo Re che nessuno o pochi conoscevano o riconoscevano.

Sindaco e assessori sono tutti possidenti, se ne stanno ben distinti dai popolani. Infatti, sono preoccupati più dall’adesione del popolo alla causa dei briganti, e alle loro rivendicazioni agrarie, dimenticandosi di aver steso il tricolore sotto gli zoccoli del cavallo di Raffa Raffa. Quando è ritratta nelle osterie la piccola borghesia ostenta la propria mediocrità, limitandosi al pettegolezzo e alla maldicenza. Melfi viene descritta come un poverissimo ammasso di rocce. I volti dei popolani, scelti tra non professionisti, ritraggono perfettamente il paesaggio umano che popolava quegli anni tormentati.

D’altro canto il potere dei briganti fu, in un certo momento, enorme. I civili erano impossibilitati a difendersi stretti com’erano tra le violenze insensate dell’una e dell’altra parte. I morti, alla fine della campagna, furono migliaia. I numeri variano da un minimo di 6.000 ad un massimo di 100.000 morti (qualcuno azzarda cifre che sfiorano le 250.000 vittime, comprendendo coloro che sono deceduti nel carcere).

Quando conquista Melfi, Raffa Raffa arringa la folla con un discorso in cui difende l’antico Re e attacca Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Nel discorso appare il legame anche con il mondo clericale che appoggiava le rivendicazioni borboniche. Il fine, però, sembra essere più la rapina, la violenza (vedi lo stupro di Zita Maria). La violenza verso i nemici è barbara: impiccagioni, violenze selvagge, stupri. Sono tutte cose che il brigante considera come premio per la propria abnegazione.

La controparte sono i bersaglieri. Il capitano Giordani (interpretato da Nazzari) viene presentato come inflessibile, duro quando mette subito in riga i soldati, spossati dalla lunga guerriglia, per l’inadeguatezza dell’abbigliamento. Tra le sue prime parole vi è anche una critica a Garibaldi, personaggio divenuto ingombrante e accantonato dal governo sabaudo. Tuttavia, il capitano è sempre coerente, guidato com’è dal senso del dovere incrollabile: ogni cosa, compresa la famiglia, viene dopo questo imperativo etico.

Con acuta analisi Germi pone, peraltro, in contrapposizione il capitano (intransigente, difensore dell’uso della forza da parte dell’esercito) ed il commissario (prudente, astuto), quasi a contrassegnare le diverse mentalità del nuovo stato. Da una parte il senso pragmatico del nord, dall’altro il fatalismo meridionalista.

I bersaglieri sono l’espressione del nord con i loro diversi dialetti. Tuttavia sono percepiti dal popolo come i nemici. Poteva essere diversamente? No, visto che “i piemontesi” avevano portato la leva militare e nuove tasse, non certo la terra che Garibaldi aveva promesso durante l’avanzata trionfale. Odio ricambiato come dimostrano le stragi compiute su inermi civili fin dalle prime fasi della lotta contro il brigantaggio. Il medico spezza questo meccanismo perché porta effettivi miglioramenti (la cura), diversamente dallo stato piemontese con le tasse. Solo quando il medico del reparto assiste i bambini dei poveri villaggi, i popolani si avvicinano ai soldati, avvertiti in precedenza come invasori.

Il capitano propone metodi duri, spicci, ma sempre nella correttezza, nel rispetto delle persone. Tuttavia, durante le perquisizioni qualche soldato ruba, se ne approfitta. Sono molti gli episodi della lotta al brigantaggio in cui le truppe si danno al saccheggio, alla tortura ed alla devastazione dei villaggi occupati. I casi di Casalduni e Pontelandolfo sono i più eclatanti del periodo.

A fianco di Raffa Raffa c’è un ex ufficiale borbonico (verso cui, nel momento della morte, c’è pietà e rispetto). Questo è realmente accaduto perché, finchè ha potuto farlo al sicuro nello stato pontificio, l’ex Re e, principalmente, la sua consorte avevano finanziato e appoggiato queste bande. La speranza iniziale era di ripetere il successo sanfedista di inizio ottocento, ma non vi è mai stata una politica organica che potesse essere di reale aiuto durante lo scontro con i soldati italiani.

La solitudine del capo è legata al suo senso del dovere assoluto. Il riscatto avviene imponendo a sé più sacrifici di tutti, partendo per la cattura di Raffa Raffa a capo di un piccolo manipolo.

Da sottolineare come Germi colga perfettamente l’estraneità popolare all’annessione. La questione d’onore, infatti, è per Carmine ben più significativa del desiderio patrio.

Va messo in rilievo, infine, che nel film non c’è spazio per le celebrazioni sabaude di nostalgici della monarchia, visione che era stata mutuata prima dal fascismo e poi dagli ambienti conservatori vicini alla Democrazia Cristiana. Manca, però, anche la critica sociale marxista che vedeva nei briganti un episodio della lotta di classe.

RECENSIONI

Epoca – Filippo Sacchi

Critica al titolo. La “Prolissità di una trama stentata e posticcia (…) consiste nel racconto della marcia dei bersaglieri. Un modello di cattiva narrativa scarna e pletorica: scarna perché manca di personaggi vivi, e pletorica perché gli autori si affannano a riempirla di incidenti, aneddoti, affettati tocchi dialettali.”

Corriere della Sera – Arturo Lanocita

Il critico rileva una “Indubbia attrattiva spettacolare”. Successivamente aggiunge che nel “Definire, attraverso i luoghi selvaggi e nel lievito di fermenti popolari, un momento del nostro passato così ricco di contrasti passionali,Germi perde di vista non tanto il rigore della verità storica, cui sostituisce una sua verità, quanto la continuità rettilinea della vicenda. Gli episodi che fanno pensare ad un texas italiano, sembrano estranei all’economia del racconto.”

L’interpretazione di Nazzari viene definita roboante. Il suo merito maggiore è segnalare “le inquietudini seguite all’unità nazionale, le diffidenze superate tra la gente del nord e quella del sud, una patria riscattata nell’eco delle ultime schioppettate tra le gole dei monti.”

Cinema Nuovo – Guido Aristarco

“Nella storia del Bacchelli, Germi ha visto il motivo della guerra civile americana e poi cose della lotta secessionista e di quelli contro gli indiani, quali comunemente appaiono nei film di Ford e altri.”

FONTE

IL SANGUE DEL SUD di Giordano Bruno Guerri (Ed. LE SCIE MONDADORI)

 

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2 Responses

  1. Joe Chindamo scrive:

    Per Piacere:
    My padre era bersagliere in In Africa nella seconda guerra mondiale.
    Mi dite titoli di film che sono storie che includino bersaglieti in quesat guerra?
    Gia oh in possessione Il Brigante Di Tacca Del Lupo e mi piace molto.
    Se my daye I Titoli io li trovero qui in Canada.
    Grazie in anticipo
    Joe Chindamo

     

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