Identità intraviste

di Massimo Morelli

“L’essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto d’identità. In altre parole, l’identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla”.  (Wim Wenders)

Crisi esistenziali, omosessualità, mondo del lavoro sono spesso gli argomenti scelti dai registi per girare film che affrontano il problema essenziale del nostro tempo: quello dell’identità. Da New York a Monaco di Baviera, un fotoreporter in crisi d’identità, si vede costretto in “Alice nelle città” a riaccompagnare in patria Alice, una bellissima (donna) bambina, dimenticata “distrattamente” in aeroporto dalla madre. La pellicola non è soltanto il manifesto di un’epoca, ma il ritratto sincero e doloroso di chi negli anni ’70, scegliendo di rinunciare alla propria storia personale ed intellettuale, disperde anche se stesso nella ricerca inutile di una nuova vita. Wenders riapre il varco della condizione umana e raccontando il coraggio di chi è disposto a perdersi per ritrovarsi, afferma oggi che solo l’incontro con l’Altro è il vero tragitto esistenziale.

In soli 25 giorni un altro autore tedesco, Fassbinder, realizza “Un anno con 13 lune”, un’opera nata dall’impulso febbrile di reagire alla morte di Armin Maier, compagno del regista, che improvvisamente si era tolto la vita. Il film coincide con la fine dell’esperienza umana e terrena di Erwin, che ripercorre nel corso del tempo le stagioni della sua esistenza: dall’adolescenza trascorsa in un monastero al primo impiego in un macello, dalle sue nozze all’operazione a Casablanca per rinascere donna. Nemmeno con la trasformazione in Elvira le sarà concessa la gioia di un amore e abbandonata ogni speranza si lascerà morire impietosamente e senza nessuno accanto. Un film tristissimo che riecheggia, dolente e crudele, nella colonna sonora di Mahler.

È con il film di L. Cantet “Tempo pieno”, che il mondo del lavoro delinea con il personaggio di Vincent (vincente?) il ritratto di un uomo qualunque, un consulente finanziario che viene licenziato. Vincent, su scala ridotta, reagisce comportandosi come fanno le grandi multinazionali in tutte le aree povere della terra: per lui la difesa dell’immagine significa innanzitutto la tranquillità della famiglia, che ottiene con la messa in scena di una stabilità sociale in realtà perduta. Il reperimento dei capitali avviene truffando gli amici con il miraggio della new economy. Con la menzogna a tempo pieno, che diventa paradossalmente per Vincent la sua nuova occupazione, il regista sembra riflettere sull’impossibilità per gli esseri umani di esistere senza un’identità e una ragione sociale e su come sia difficile immaginare un mondo senza lavoro, una lontana utopia, una vana speranza. Dal lavoro non si sfugge e l’accettazione forzata della conformità è per Vincent, amaramente, la sua sconfitta.

Un approccio particolare alla questione dell’identità viene da “Tornando a Casa” di V. Marra. Nella prima parte è quasi un documentario, che descrive le reali condizioni di lavoro di alcuni pescatori napoletani, costretti al ricorso all’illegalità (si abbandona il golfo di Napoli perché diffidati dalla camorra a restare, ma obbligati a emigrare in Sicilia si corre il rischio di essere braccati dalla guardia costiera se sorpresi a pescare nelle acque territoriali della Tunisia). A differenza del francese Vincent, prigioniero di un’assunzione, il giovane pescatore di Marra sceglierà deliberatamente di perdere per affidarsi libero alla deriva. Fianco a fianco con gli ultimi della terra e come uno di loro.

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