Playtime – Modernità

Il nostro parere

Playtime (1967) FRA di Jacques Tati

In una Parigi modernissima, un gruppo di turisti americani si incrocia con monsieur Hulot, impegnato nella ricerca di un impiegato di una grandissima azienda.

Tati gira il suo ultimo lungometraggio lanciando, ancora una volta, i suoi strali contro la civiltà contemporanea vista come un mostro disumanizzante. Lo fa puntando esclusivamente sulle immagini che si intrecciano, con gag accennate, messe sullo sfondo, basate quasi esclusivamente sui suoni e sull’intuizione dei personaggi. Per farlo ricostruì un vero e proprio quartiere con costi altissimi, scarsamente ricompensati dai mediocri incassi.

Eppure a distanza di anni, il messaggio profondo di Tati resta misteriosamente profetico. In fondo, i turisti americani che visitano solo i centri commerciali di Parigi e fotografano un finto e misero baracchino di fiori prendendolo come la città antica e caratteristica, non sono molto simili a chi si reca nei villaggi turistici e afferma di aver visitato la nazione? I centri commerciali non sono la prefigurazione dei finti negozietti creati appositamente per far credere al turista di aver preso prodotti locali?

E il predominio di macchine assurde (naturalmente con le necessarie modifiche visti i 50 anni passati) che tutto dovrebbero controllare non sono l’anticipazione della dittatura della tecnologia moderna? Per finire alle case di vetri dove tutto è esposto e visibile ai passanti, metafora di un mondo consumistico in cui conta solo l’apparenza.

Certo, il film risente in parte di un rimpianto anacronistico del passato agreste, indicato come ideale, senza proiettare altro. Non si può non notare che tutto avviene con una grazia inimitabile e Hulot assiste sgomento al peggiorare del mondo. E noi con lui.

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