No time to die (2021) USA di Cary Fukunaga
Dopo aver lasciato i servizi segreti, Bond si gode una vita tranquilla in Giamaica. Tuttavia, la pace conquistata si rivela di breve durata quando il suo vecchio amico Felix Leiter gli chiede aiuto.
L’ultimo film di Craig nei panni di James Bond completa un percorso interessante in cui vi è stata una rilettura del personaggio in chiave più moderna, ma anche più svincolata rispetto ai predecessori. Bond è diventato umano, ancora sciupafemmine ma con sentimenti e amori, con dolori e tenerezze. Il processo di umanizzazione del personaggio si è intrecciato alla riscrittura dell’ambiente con i capi del servizio segreto M16 che si susseguono, ognuno con le proprie caratteristiche.
Ciò che rende “No Time to Die” guardabile (al di fuori di una svolta tipicamente impegnata da Craig) è il robusto senso visivo che Fukunaga spesso crea quando non deve concentrarsi sulla trama. La sequenza di apertura è ben inquadrata e quasi poetica: anche la prima inquadratura di una figura incappucciata che arriva su una collina innevata ha una grazia che spesso manca a Bond. La sparatoria a Cuba si muove come una scena di ballo con Craig e de Armas che trovano i ritmi l’uno dell’altro. C’è un incontro avvincente in una foresta nebbiosa e un solo colpo che si arrampica in una torre di nemici che ricorda “True Detective”. In un’era con meno blockbuster, questi rapidi brividi viscerali potrebbero essere sufficienti.
Il lato debole sta nel fatto che non vi è nulla in questo film che non è stato visto nei precedenti (location a parte) e manca una reale svolta in un’opera che doveva chiudere un’era e proporne un’altra. Quale? Ancora mistero.
Il cattivo di Malek sa di deja vu e il solito tentativo di ammazzare milioni di persone fa quasi sbadigliare. Ancora? Verrebbe da chiedersi. Quindi il succo sta nell’azione, nel ritmo, nello stile.
