Made in Italy. Populismo spacciato per Rock

Il nostro parere

Made in Italy (2017) ITA di Luciano Ligabue

Riko è un operaio quarantenne: in rotta con la moglie, in difficoltà con il figlio, insoddisfatto del lavoro e della vita, legato ad un gruppo di amici dall’adolescenza. Aspetta da sempre un cambiamento che non sa descrivere e nutre una rabbia verso il mondo. La scoperta del tradimento della moglie innescherà una serie di avvenimenti.

In fondo, Ligabue è come l’Italia: assume una posa moralista ma non rispetta le regole che gli “altri”dovrebbero rispettare, espone idee legittime ma con i clichè, gli stereotipi, senza un effettivo ragionamento; si considera buono, ma propaganda idee statiche, fintamente altruiste. Ed è così il suo cinema. Dopo l’esordio di Radiofreccia, Ligabue è diventato autoreferenziale,  ripetendo all’infinito le stesse identiche  strutture narrative dei suoi film precedenti. E se in Dazeroadieci sorgeva il sospetto che sapesse raccontare solo una storia, qua ne abbiamo la conferma assoluta.

Si parte dal consueto milieu emiliano, poi il gruppo di amici, poi gli amori sfortunati e, infine, l’inevitabile lutto che colpisce il gruppo. Naturalmente il defunto è quello che durante il film pronuncia le frasi più ad effetto. Quando snocciola la prima, sappiamo già che ci resterà secco, ma a lungo andare diventa insopportabile, tanto i suoi aforismi rispecchiano la banalità spacciata per genio (un’altra caratteristica tipica degli italiani).

Questa sciatta visione del mondo è speculare ai testi gravemente carenti della colonna sonora, tutta ad opera del rocker emiliano che appare stanco anche nella produzione musicale. I concept album sono una cosa seria, peraltro scarsamente filmabili di natura. Cucire una serie di canzoni a tema su di un film è una pessima idea se si è perso il senso della misura.

Può apparire un giudizio ingeneroso perchè Accorsi se la cava niente male, perchè l’aspetto formale del film è buono, perchè le coreografie di Tommasini rendono divertenti i titoli di testa. Non lo è se si guarda alla sostanza, alla mancanza di idee, ad una visione dell’Italia provinciale e populista.

 

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