La spia che venne dal freddo. Cinici e disperati

Il nostro parere

La spia che venne dal freddo (1965) USA di Martin Ritt

Piena guerra fredda: uno degli informatori di Alex Leamas, agente segreto britannico, viene ucciso davanti ai suoi occhi dai tedeschi. Leamas ne esce provato, ma Control, il suo capo, gli da l’occasione per vendicarsi di Mundt, capo dei servizi segreti tedeschi. L’uomo si finge alcolizzato, disoccupato (fanno credere che sia stato cacciato) e ormai senza più speranze e desideri. Questa finzione, però, rappresenta una buona parte della realtà e l’unica vera ancora di salvezza sembra essere l’amore che incontra casualmente in Nan.  Nulla è come sembra. Lo stesso Leamas, convinto di sapere cosa sta accadendo, si renderà conto di essere una semplice pedina e dovrà capire fino a che punto la sua coscienza è sporca.

Tratto da un’opera di John Le Carrè, il più grande scrittore di spystory (forse perché le sue non solo “solo” spystory), il film rappresenta un mattone dello spirito civico di questo intelligente regista, indagatore dell’animo inserito sempre in un contesto sociale e storico preciso. Il suo cinema cerca risposte sui comportamenti umani di fronte a quesiti etici irrisolti.

Alex Leamas è un antieroe che si contrappone al modello Bond, propagandato da Jan Fleming. Il suo spionaggio non è avventuroso e picaresco, non si crogiola negli effetti speciali e nelle acrobazie: si basa esclusivamente sull’analisi psicologica. Ritt indugia su questi aspetti rendendo quasi secondario l’intreccio spionistico. Il volto di Richard Burton, dolente e disilluso, è un perfetto contrappunto.

Per il film l’unica scelta non è resistere, ma il modo con cui arrendersi alla ineluttabilità del male.

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