La sala professori (2023) GER di Ilker Catak
Carla Nowak, insegnante idealista, inizia il suo primo lavoro in una scuola. Quando si verifica una serie di furti nella scuola e si sospetta di uno dei suoi studenti, decide di andare a fondo della questione da sola.
Il film di Ilker Çatak vuole metterci a disagio: un film che genera un profondo malessere, e non solo perché il regista utilizza le regole, i meccanismi e la forma del thriller (o persino del film horror) per creare uno stress infernale nello spettatore. No, la forza di La sala professori – forse anche il suo limite – sta nel creare un enorme miscuglio di situazioni sociali, problemi politici, comportamenti devianti causati dalle ultime “tendenze”, scuotendo energicamente tutto ciò e traendone una fiction sempre più labirintica, in cui i personaggi si rinchiudono senza speranza di uscita. Devastando i nostri nervi con colpi di scena assolutamente furiosi, facendoci irritare di fronte alle decisioni assurde della sua eroina (una giovane professoressa di matematica e sport idealista che vuole fare del bene e prende SEMPRE le decisioni sbagliate), Çatak ci racconta quanto il nostro mondo attuale sia diventato semplicemente invivibile, disumano.
Leonie Benesch interpreta con molta finezza, l’insegnante ingenua e sopraffatta, che si finisce per detestare progressivamente – un tour de force del film. Perché nel nostro mondo dove ognuno ha le sue ragioni, dove le regole non esistono più, dove i comportamenti di tutti sono allo stesso tempo profondamente egoisti e corrotti dalla paura dell’opinione altrui, dove si scontrano frontalmente un razzismo generale sempre meno nascosto (qui, l’insegnante è di origine polacca e i primi accusati sono immigrati di fresca data) e una totale resa ai precetti della permissività, dove infuria la guerra intergenerazionale, La sala professori traccia un quadro agghiacciante della decadenza della società.
Il problema è che, inevitabilmente, quando si tratta di un programma così cupo come quello di Çatak, tracciare un quadro non permette necessariamente di trovare una via d’uscita: il finale è abbastanza deludente. Tra banalità scontate (il Cubo di Rubik, che si vedeva tornare da un po’) e ambiguità poco produttive (il bambino viziato portato via dalla polizia), non si può dire che Çatak abbia saputo concludere bene il suo pamphlet.