Kieslowski e la filosofia

Krysztof Kieslowski è morto a soli 55 anni. La sua perdita è gravissima perché era nel pieno della maturità artistica dove aveva raggiunto vette altissime. Ora, a ventuno anni dalla sua morte, vale la pena ricordarlo perché studiare i suoi film insegnerebbe a tanti la profondità delle immagini, la coerenza stilistica e la ricchezza contenutistica. Il regista polacco possedeva queste tre cose in quantità industriali, così come padroneggiava perfettamente il ritmo nelle immagini.

Se il Decalogo è stato una riflessione etico-morale che prendeva spunto dai dieci comandamenti (troppo facile però ridurre l’opera a questo solo aspetto), i suoi successivi film sono stati un prodigioso incontro tra fluidità delle immagini e tematiche filosofiche. La sua grandezza stava proprio nel delicato equilibrio tra forma e contenuto. Spesso, infatti, il messaggio prevale sull’aspetto fondamentale del cinema, ovvero il movimento. Spesso questi approcci conducono a testi intensi ma particolarmente noiosi, più per adepti che per appassionati. In Kieslowski questo aspetto non prevaleva mai, si armonizzava nell’immagine.

Su Wikipedia viene riferito che è considerato uno dei più grandi della storia del cinema, ma se dovessimo valutare questo dai ricordi che si hanno di lui, non si rafforzerebbe tale certezza. Perché di certezza si tratta. Chi ha visto i suoi film non poteva non restarne profondamente colpito e commosso.

Dopo un inizio di film tv e documentari, Kieslowski passa al lungometraggio affermandosi nel 1988 con Il Decalogo, film tv in dieci episodi che prendono spunto ognuno da uno dei dieci comandamenti. Nel 1989 l’opera vince il primo premio al Festival di San Sebastián, il premio Fipresci al Festival di Venezia ed il Nastro d’Argento.

Nel 1991 ritorna con La doppia vita di Veronica dove scopre la sua musa, ovvero la bellissima Irene Jacob che solo con lui saprà rifulgere nel firmamento cinematografico. Un film che si potrebbe affiliare al realismo magico di letteraria memoria. Attraverso la vita di due donne, perfettamente uguali che scelgono (con le classiche sliding doors) due percorsi di vita differenti, Kieslowski prosegue nella sua riflessione sul destino dell’essere umano, sulla complessità della sua psiche.

Nel 1993 esce Tre Colori-Film blu, primo episodio della trilogia ispirato alla bandiera francese (Libertè, egalitè, fraternitè). Protagonista Juliette Binoche, altra musa, che avrebbe dovuto interpretare inizialmente anche La doppia vita di Veronica. L’opera è centrata totalmente su di lei che appare sempre sulla scena. E’ un film bellissimo e straziante dove la musica assume una connotazione essenziale, grazie a Zbigniew Preisner, autore di grande finezza e cultura. Leone d’0ro a Venezia

Nel 1994 è la volta di Tre colori-Film bianco, il più debole (se così si può dire) dei tre. Anche se meno risolto prosegue la riflessione intimistica. Orso d’argento a Berlino per la regia. Il tono grottesco e crudele è reso ottimamente dal protagonista Zamachovski, meno da Julie Delpy.

L’ultimo suo lascito è Tre colori-Film Rosso . E’ uno straordinario esercizio stilistico dove il cinema-movimento è unito con sensibilità unica alla riflessione sociometafisica. Il film lascia liberi gli spettatori nell’interpretazione ma non si può non sottolineare il magico equilibrio tra la sontuosità delle immagini, la colonna sonora potente e affascinante e la qualità delle interpretazioni. Magico.

Nel 1996  un attacco di cuore lo stronca a 55 anni, portando via un regista che, diceva Stanley Kubrick, “Esemplificando i concetti attraverso l’azione drammatica della storia essi acquisiscono il potere aggiuntivo di permettere al pubblico di scoprire quello che sta realmente accadendo piuttosto che semplicemente raccontarglielo. Lo fanno con tale abbagliante abilità, che non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore”

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