Il club. Percorsi del male

Il nostro parere

Il club (2015) CILE di Pablo Larrain

Quattro sacerdoti vivono isolati dal mondo in una casa di penitenza. Assistiti da una ex suora, i 4 sono stati puniti dalla chiesa per gravi motivi che verranno svelati poco alla volta durante l’intreccio. L’arrivo di un quinto sacerdote, subito suicida, scoperchia i mali contenuti nell’abitazione. Un altro prete, mandato dal vescovo per chiudere la casa, dovrà sciogliere la matassa, decidere cosa fare.

Difficile trovare un’opera così forte, così originale sui mali della chiesa. Larrain, regista di alto spessore, non sceglie l’inchiesta (Il caso Spotlight) per affrontare il problema, non sceglie neppure la riflessione filosofica. Lui cerca le radici del male, o perlomeno cerca di mostrare come il male si annida, si svolge, si compenetra nelle azioni di tutto i giorni, in apparenti scampoli di vita. La sgradevolezza dei temi affrontati fa sì che il regista cileno non sia così apprezzato dal pubblico, ma la qualità del suo cinema lo pone tra i più interessanti (a soli 40 anni ha già almeno 4 ottime pellicole alle spalle) registi del mondo.

Il rigore con cui viene messo in scena il dramma è assoluto. Non è difficile scorgere molte metafore della condizione della chiesa (la vittima, l’agnello sacrificale, che viene infine accolto), la casa isolata dal resto del mondo, l’indifferenza con cui la popolazione segue, la violenza alla base della relazione sociale. L’orribile verità non ci è comminata attraverso un percorso rigeneratore, con una conclusione che pacifica la coscienza. Penetra invece nell’interno, si inocula nella mente fino a contaminarla, lasciando un senso di inquietudine di cui è difficile disfarsi.

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