Fellini nel cestino

di Gianfranco Angelucci (da articolo21.org)

Qualche anno dopo lo Special sul Casanova, nel 1984, e questa volta senza Liliana Betti incorsa nel frattempo in una rivolta personale contro il suo creatore (di cui il Centenario Felliniano potrebbe contribuire a chiarire i risvolti), ritornai al tema dell’edizione con un super ‘speciale’ diciamo pure esplosivo. Si trattava di recuperare e mostrare al pubblico in prima visione assoluta tutti i tagli che Fellini aveva apportato ai suoi film o subito del corso della carriera. Il titolo era Fellini nel cestino, con allusione al quel cestone di tela accanto alla moviola in cui finiva la pellicola non utilizzata o scartata nel montaggio. Si trattava di rovistare in quell’ideale deposito della memoria e dei relitti alla scoperta dei tesori perduti. Erano stati Achille Manzotti e Pietro Notarianni a propiziare l’impresa. Il primo, notissimo produttore campione di incassi con i film di Renato Pozzetto e assai tentato dalla prospettiva di entrare nelle buone grazie di Fellini e di produrre un suo capolavoro; il secondo, leggendario uomo di apparato di Franco Cristaldi, alla Vides, promosso sul campo a organizzatore di fiducia del Maestro dopo il successo planetario di Amarcord.

Il recupero dei reperti inediti e preziosissimi si presentava come un’occasione rara per affrontare con Fellini un discorso più articolato e personale sulla postproduzione cinematografica, al quale non si era mai prestato in precedenza in video, di persona.

L’impresa, alla pari del titolo, era scanzonata e suggestiva: bisognava battere a tappeto tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa della Capitale per riportare alla luce materiale di scarto affondato nel dimenticatoio nel corso degli anni.

Sono numerose e svariate le ragioni per le quali una parte più o meno consistente del girato alla fine della lavorazione viene sacrificato: l’eccesiva durata del film, i ripensamenti creativi dell’autore, l’imposizione delle distribuzioni estere attente al gusto del proprio mercato, e last but not least, i famigerati interventi di censura. Perché, per chi non lo sapesse, la censura amministrativa è ancora operativa in Italia, sebbene non venga in pratica più applicata da decenni; ed esistono presso il Ministero dello Spettacolo regolari commissioni di censura preventiva, remunerate, incaricate di controllare tutti i film in uscita prima di rilasciare il nullaosta per la proiezione pubblica e la loro esportazione all’estero.

Per una singolare combinazione era proprio nella fase dell’edizione che Fellini aveva favorito il mio primo approccio alla lavorazione cinematografica. Se “Roma” aveva rappresentato il mio esordio sul set, la vera iniziazione era avvenuta un anno prima durante il doppiaggio de I Clown. Il regista stava concludendo l’incisione delle voci alla CDS di Via dei Villini, al Nomentano, e mi aveva invitato a raggiungerlo. Allora possedevo nozioni soltanto vaghe e approssimative sull’edizione di un film, e ne rimasi letteralmente rapito. Allo spegnersi della luce rossa tra una registrazione e l’altra, Fellini mi aveva lasciato entrare nella saletta di doppiaggio e mi ero seduto in religioso silenzio in una delle poltroncine davanti allo schermo. Intanto lui era scivolato, attraverso una porta imbottita, nel box vetrato alle mie spalle, sedendosi accanto al fonico. L’ambiente era in penombra, rischiarato soltanto da una fioca luce di servizio, e rimaneva del tutto al buio appena iniziava la proiezione. Solo minuscole lampadine a braccio snodabile alonavano il leggio e il tavolino di servizio addossato al muro al quale sedevano il direttore di doppiaggio Mario Maldesi e l’assistente Camilla Trincheri. Era Camilla, una ragazza sveglia, mezza americana per nascita, che aveva provveduto in precedenza a trascrivere i dialoghi del copione, suddividerli in paragrafi di due o tre battute ciascuno, e procedere alla preparazione degli anelli. Così si chiamano gli spezzoni di pellicola, corrispondenti all’esatta durata di dialogo da doppiare, che sono chiusi ad anello per poter essere proiettati senza interruzioni, ritornando ogni volta in testa, fino al conseguimento del risultato desiderato.

Sotto lo schermo, in piedi di fronte al leggio, il doppiatore ascoltava in cuffia il sonoro originale della pellicola e ripeteva le battute di presa diretta cercando di seguire il movimento delle labbra dell’interprete in scena, cioè di rispettare il sincronismo.

L’Italia vanta un’eccellente scuola di doppiatori creata per dare voce ai divi di Hollywood, o di qualsiasi altra nazionalità, già prima dell’ultima guerra, quando ancora l’analfabetismo era diffuso e incerta la lettura dei sottotitoli; ma si era sviluppata ulteriormente con l’avvento del Neorealismo quando molti interpreti venivano presi dalla strada, uno sterminato serbatoio di facce al quale anche Federico non aveva mai rinunciato ad attingere. Il doppiaggio rappresentava anzi per lui un momento particolarmente creativo, ed erano una decina i nomi che utilizzava più assiduamente: Corrado Gaipa, Marcello Tusco, Carletto Romano, Mario Maranzana, Solvejg D’Assunta, Ettore Geri, Carlo Baccarini, Livia Giampalmo, Elsa Vazzoler. Oltre ai tre celebri fuoriclasse: Alighiero Noschese, Alberto Lionello e Oreste Lionello. “Con Alighiero e i due Lionello, – diceva – posso doppiare qualsiasi film dal principio alla fine.” I tre attori, imitatori superlativi di qualsiasi cadenza, timbro, cromatismo, dialetto, erano dotati di un virtuosismo vocale entusiasmante, e spesso venivano chiamati a dare la voce a più personaggi all’interno della stessa storia. La complicità artistica di quei discoli impenitenti con Fellini, assicurava uno spasso fuori programma, come trovarsi tra compagni di liceo sopresi a sciommiottare i professori o il signor preside.

Per Fellini del resto la costruzione fonica del film era altrettanto importante della ripresa visiva. Di fatto si trattava di un secondo film che egli si accingeva a realizzare, spesso riscrivendo in saletta anche parte dei dialoghi, arricchendoli, precisandoli, sfumandoli, stravolgendoli.

Nello special filmato, avevamo chiamato Oreste Del Buono nel ruolo di intervistatore e di spalla, e il regista improvvisava con lui divertenti siparietti, chiarendo diffusamente quale fosse il suo pensiero nei confronti della ‘partitura sonora’ del film. Un compito che richiedeva settimane e spesso mesi di impegno. L’opera, uscita dalle fastose luci del set, si calava in una penombra di sedimentazione e di precisazione. Era forse la gestazione più delicata, una sorta di ritiro monastico molto congeniale all’autore che non conosceva stanchezza, potendo infilare in un giorno anche tre turni di seguito (i turni durano tre ore) senza mai perdere verve e rigore. Era incontentabile e i risultati parlano da soli. Basti pensare a certe alchimie delle sue accoppiate: Pupella Maggio, sublime attrice del teatro napoletano, chiamata in Amarcord a interpretare la madre di Titta, e doppiata in romagnolo dall’impareggiabile Ave Ninchi; o la Gradisca, alias Magali Noël, a cui prestava la voce la divina Adriana Asti.

“Un attore – ripeteva Fellini – può essere giusto per dare il suo volto al personaggio, ma non possedere la voce che ti aspetti; magari troppo cupa, o troppo acuta, o troppo impostata, e comunque non quella che ho immaginato per lui. E allora la cambio. Che male c’è, il tessuto delle voci è una partitura, non dissimile dall’equilibrio degli strumenti di un’orchestra, e deve rispondere senza dissonanze alla combinazione dei sembianti.”

Nello special il regista conversa amabilmente, con calore e convinzione, esprimendo la sua concezione rispetto alle problematiche della post- produzione, e cioè montaggio, doppiaggio e sincronizzazione.

Fellini parla dell’utilizzazione dei rumori, racconta come nasce la pressa Catozzo, inventata dal suo montatore, un aggeggio che aveva rivoluzionato il montaggio cinematografico nel mondo intero. E si intrattiene sulle sequenze che alla fine non avevano trovato posto nella copia definitiva dei suoi film. Alcune leggendarie, come L’uomo del sacco. Altre ignorate fino a quel momento, come i numerosi tagli del Casanova e di Amarcord.

Nel caso di Casanova il “Canalone Turco” era stata una amputazione dolorosa soprattutto per il produttore. La sequenza adombrava l’incontro omosessuale di Giacomo Casanova con un giovane e ricco emiro di colore. La scenografia, che era costata attorno ai 400 milioni di lire, aveva richiesto un largo impiego di mezzi e di tempo, e Danilo Donati vi aveva profuso gusto e fantasia in quantità; eppure nel montaggio finale non venne utilizzato neppure un fotogramma del materiale. Fellini stesso spiegava a Oreste Del Buono:

“Era stato costruito un vero canalone d’acqua e l’imbarcazione si muoveva trainata da cavi che si avvolgevano su enormi cilindri. Un impianto scenografico imponente, un lavoro enorme degli scenotecnici, ma anche mio e dell’intera troupe, per la cura che avevamo posto nello scegliere ogni materiale, ceramiche, maioliche, mosaici. Penso a quante nottate abbiamo speso nei prati freddi e umidi di Cinecittà, e poi ad ogni nuovo ciak l’uso delle resistenze elettriche per riscaldare l’acqua e convincere la figurante a tuffarsi… Tutta questa fatica, non dico solo mia ma delle tante persone coinvolte, improvvisamente tàc, due colpi di forbici…”

Il regista mimava con le dita il gesto crudele del taglio, per subito mitigarlo in un sorriso sfumatamente ironico e assolutorio: “Però adesso l’abbiamo recuperata…”

La scena soppressa sembrava introvabile. Poi per fortuna rinvenimmo varie scatole di “scarti e doppi” nei depositi della Technicolor, e il montatore Ugo De Rossi, sorvegliato da Fellini, riuscì a ricostruire integralmente la sequenza sacrificata. Un inedito assoluto, presentato per la prima volta al pubblico nella versione originale grazie al nostro film di backstage.

Naturalmente alla distruzione generale che accompagna invariabilmente la fine lavorazione del film, non era scampata neppure la colonna magnetica di presa diretta, quindi mancava il dialogo e i personaggi non erano stati doppiati; ma la suggestione narrativa risulta oggi perfino accresciuta, dal momento che sulle immagini risuonano le note di Nino Rota e si deposita suadente come una fiaba la rievocazione di Fellini:

“Nel film si immagina un viaggio in Turchia di Casanova, il quale resta incantato, affascinato dal principe che lo ospita e che a sua volta sembra ricambiarne il sentimento. Avevo aggiunto anche una sequenzina in cui si vedono alcuni guardiani corrotti che in cambio di denaro permettono a Casanova di spiare nelle celle segrete dell’Harem.”

I sorveglianti infedeli vengono scoperti dal possente eunuco di sentinella che li prende a sciabolate, ma a sedare la rissa interviene personalmente il principe (“un ballerino americano – aggiunge Federico – che non ebbe mai la soddisfazione di potersi rivedere nel film”), il quale invita lo straniero a salire sul suo sontuoso zatterone: bevono infusi, fumano il narghilè, e tra una carezza e l’altra finiscono per baciarsi appassionatamente.

Lo splendore della sequenza oltre a suggerire un esempio del poderoso sforzo produttivo serve anche a illuminare l’assoluta libertà di cui godeva l’autore, il quale nel suo intervento chiarisce le ragioni del ‘costoso’ ripensamento. Di fronte allo scarso entusiasmo della Universal, la compagnia distributrice del film negli Stati Uniti, e anche in considerazione dell’eccessiva durata della prima versione di montaggio (che superava le due ore e mezzo), non aveva avuto tentennamenti a sacrificare quella manciata di minuti, una decina in tutto, che non lo convincevano più. Con buona pace di Alberto Grimaldi che sulla stampa lo accusava apertamente di essere peggio di Attila.

Degli altri tagli riproposti dallo Special non si aveva davvero più notizia; tra essi l’incontro clandestino dell’amatore veneziano con la matrona dalle tette gigantesche, interpretata dall’americana Chesty Morgan; era un inseguimento erotico attorno a un tavolo, che avveniva nell’atelier di Barberina, e Federico commentava in diretta con qualche sorprendente e piccante notizia.

Nel generoso repechage, tuttavia, l’impresa veramente rocambolesca era stato il recupero, presso la vecchia Staco Film, della famosa sequenza L’Uomo del sacco espunta da Le notti di Cabiria quasi trent’anni prima. La storia è nota ma vale la pena rinfrescarla.

La censura amministrativa dell’epoca aveva negato al film il visto di circolazione nelle sale (marzo 1957), una decisione che a quei tempi imponeva la distruzione del negativo, cioè una insensata quanto ridicola condanna al rogo degna di un tribunale dell’Inquisizione.

A scatenare la furia del censore non era una scena di sesso spinto, come oggi potremmo supporre, e neppure di denuncia di una religione superstiziosa e oscurantista come quella illustrata nella sequenza del miracolo delle Tre Fontane. Bensì un racconto un po’ fatato e quasi elegiaco, di circa dodici minuti, in cui si narra di un filantropo (interpretato da Leo Catozzo, il montatore di Fellini promosso ad attore per la sua aria ascetica) che nottetempo, a bordo della sua Fiat Giardinetta, perlustrava i quartieri periferici e dimenticati della Città Eterna per recar soccorso ai diseredati: un po’ di cibo, una maglia di lana, una medicina, una parola di conforto. Scoprivamo un’ignota, brulicante corte dei miracoli di vecchie prostitute, barboni, alcolizzati, reietti, nascosti fra le grotte di tufo, le umide cavità sotterranee, i cunicoli dell’Appia Antica, dell’Ardeatino, dell’Infernetto, di Torpignattara. Una subumanità disperata e cenciosa che non faceva onore a nessuno, né al regime della ricostruzione con il boom economico alle porte, né tanto meno al Giubileo di Santa Madre Chiesa. E a quel tempo nulla veniva ammesso dall’occhiuto revisore che potesse turbare la coscienza degli elettori.

Ad aiutare Federico intervenne padre Angelo Arpa, il gesuita con cui il regista aveva stretto un rapporto d’affetto e di stima fin dal tempo de La Strada.

Arpa che esercitava il suo sacerdozio nella diocesi di Genova, si era conquistata la benevolenza del Cardinale Giuseppe Siri, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e candidato di prima linea al soglio pontificio nella successione a Pio XII. Il gesuita si rivolse pertanto al potentissimo porporato per scongiurare lo scempio annunciato e sottrarre l’amico al preoccupante anatema, oltre che a un rilevante danno economico e di immagine.

Nella rievocazione di Federico l’episodio si era trasformato ben presto in un epos, che si arricchiva col tempo della sua accesa visionarietà.

Per consentire al Cardinale di visionare privatamente il film, era stata organizzata una proiezione in una delle sale cinematografiche più appartate nel dedalo dell’angiporto di Genova. La lustra berlina nera del prelato era giunta a mezzanotte, in perfetta segretezza. In platea era stato piazzato una specie di trono sontuoso in foglia d’oro e velluto cremisi, che Federico stesso aveva scovato presso un antiquario della città, in segno di deferenza alla dignità dell’augusto personaggio. In sala non erano stati ammessi altri spettatori ad eccezione di Arpa, al quale era stato assegnato il compito delicatissimo di tener desta l’attenzione del Principe della Chiesa in caso di assopimento, ricorrendo a strategici colpi di tosse o cauti sfioramenti in coincidenza, specialmente, dei passaggi più edificanti della trama.

Il regista era restato in attesa fuori, seduto sul gradino in pietra dell’ingresso. E tutte le luci, anche dell’atrio, erano state spente.

Nessuno conosce con precisione che cosa si siano detti i due religiosi nel corso della proiezione. Si sa soltanto che nell’oscurità della sala, alle ultime battute del film e prima che si spegnesse lo schermo, il porporato avrebbe mormorato: “Bisogna fare qualcosa per la nostra povera Cabiria.” Rimane ancora incerto se con tale espressione Siri intendesse riferirsi al film, o alla protagonista interpretata da Giulietta Masina, una pecorella smarrita redenta in grazia alla sua incrollabile fiducia nella vita. Bastarono tuttavia quelle poche parole riportate nei corridoi giusti, perché nello zelo del regime democristiano il decreto di censura sparisse come d’incanto. Ma non senza lasciare una traccia e un’ammonizione: al film fu concesso il tanto sospirato visto di circolazione nei cinema, a condizione però che cadesse l’episodio dell’Uomo del Sacco, sacrificato con tempestiva solerzia dal produttore Dino De Laurentiis.

La mutilazione non impedì tuttavia all’opera di guadagnare un nuovo Premio Oscar al suo autore. E oggi se il film circola nella sua versione integrale, il merito va assegnato allo special televisivo che disseppellì e ripropose la sequenza.

Tra i contributi cercati ad oltranza, non abbiamo mai ritrovato purtroppo il primo finale di 8 ½, conosciuto come “la carrozza ristorante”, del quale in seguito sono riemersi pochi scatti in bianco e nero dall’archivio di Gideon Bachman, a conferma della reale esistenza di quella specie di fata morgana.

Per Amarcord erano tornate invece alla luce la scena dell’ombelico del Cinese, uno scherzaccio improvvisato dal Pataca al Caffè Commercio; e la sequenza relativa al pozzo nero nel quale si immerge Colonia – attenti al nome! – un energumeno incaricato dal Conte di recuperare l’anello scivolato alla contessina nella tazza del gabinetto. Sembra che in America l’episodio risultasse poco intellegibile, l’incaricato della distribuzione non riusciva a capire a cosa si riferisse quel bagno disgustoso dell’omone negli escrementi della famiglia nobiliare. E Fellini acconsentì a sforbiciarlo.

In conclusione lo Special poteva vantare una nutrita raccolta di materiali insospettabili e per giunta arricchiti da confidenze e commenti di prima mano di Fellini. Un documento prezioso per appassionati e filologi.

Nell’occasione aveva esordito nel ruolo di assistente al montaggio Nicoletta della Corte, spontanea e briosa nel fare da spalla a Fellini con maliziosa finta innocenza. Un’autentica scoperta.

La disinvolta chiacchierata con Oreste del Buono era stata girata, per comodità di ripresa, in un teatro di posa di Cinecittà, in cui lo scenografo Luciano Calosso, per un garbato omaggio, aveva ricostruito la saletta di montaggio dilatandone le proporzioni e ingentilendone l’aspetto.

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