Elvis – Prigioniero

Il nostro parere

Elvis (2022) USA di Baz Lurhmann


La nascita, l’ascesa e il travolgente successo mondiale di Elvis Presley, stella incontrastata del firmamento musicale, viste dagli occhi del suo manager storico, il colonnello Tom Parker.


Raccontare la storia di Elvis Presley dal punto di vista dell’uomo che lo ha “creato”, il suo storico manager il Colonnello Tom Parker, consente a Luhrmann di inquadrare il suo soggetto sia come prodotto commerciale che come fenomeno culturale. La fama di Presley coincise e fu sostenuta da un’America in rapido cambiamento il cui mainstream non aveva ancora abbracciato il movimento per i diritti civili. La tendenza del regista australiano verso l’eccesso si sposa con questo racconto e lo fa esplodere in mille rivoli che sconfinano, come nei suoi precedenti film, talvolta nel kitsch.

Il racconto avviene tramite i ricordi inaffidabili del colonnello Parker, da molti indicato come manipolatore e truffatore ai danni del cantante. Luhrmann sposa questa tesi e affida il ruolo a Tom Hanks, per la prima volta cattivo sullo schermo. A Parker vengono date anche le colpe dello stato di prostrazione che portò Elvis alla morte a soli 42 anni, vittima di un attacco di cuore, dovuti all’abuso di alcol e sostanze stupefacenti.

La sua visione, però, si interrompe 2 anni prima quando Elvis è ancora un uomo bello, affascinante, prima della decadenza fisica dell’ultimo periodo. Il suo ultimo concerto, mostrato in alternanza con immagini reali e ricostruite è la scena finale, il commiato triste dal personaggio, ma il finale vero è nel saluto alla figlia.

Il concerto, la chiosa di Parker che ricostruisce il suo passato servono solo a legare la narrazione spezzata di Lurhmann che si concede raramente ad uno sviluppo canonico dove comprendere a fondo l’impatto del cantante sui costumi dell’epoca, quando con il suo ancheggiare spezzava tutti i tabu ponendosi come oggetto sessuale, ma soprattutto come simbolo di ribellione.

Ne esce un racconto affascinante, inevitabilmente superficiale sia sui rapporti personali (la moglie, la figlia, gli amici sono sullo sfondo) che sulle interazioni con gli sconvolgimenti storici, come l’assassinio di Martin Luther King, semplici stratagemmi per innescare le presunte ribellioni di Presley allo status quo. Va detto che il punto di vista assunto è quello di Parker, uomo insensibile alla politica e, a quanto pare, allo stato d’animo dell’artista, concentrato solo sui lauti guadagni possibili. Un uomo di tal fatta non poteva cogliere altro che quello mostrato sullo schermo. Il regista, tuttavia, poteva allargare lo sguardo, far trasparire ben altro rispetto a semplici immagini televisive e smorfie di Butler

C’è anche la questione di Hanks, il cui accento “europeo” da cartone animato (il vero Parker era olandese), il naso protesico e il vestito grasso trasformano la tragedia in burlesque. Almeno c’è Butler, la cui combinazione di sensibilità e spavalderia aiuta a evocare lo spirito di Presley. Luhrmann lo riconosce astutamente, rimettendo in scena una straziante performance di “Unchained Melody” del 1977, due mesi prima della morte di Presley e dissolvendo la scena in filmati della vera performance. Nonostante tutti gli strass e il bagliore, Luhrmann si trattiene daldarci l’uomo sotto. Il suo stile, però, lo salva rendendo il film un’esperienza comunque luccicante e affascinante.

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