Dillinger è morto. L’uomo non ha speranze.

Il nostro parere

Dillinger è morto (1969) ITA di Marco Ferreri

Controcorrente e geniale, Marco Ferreri propone un film di rottura, un manifesto di avanguardia che spiazza e ferisce. In quest’opera si raggiunge un equilibrio tra sperimentalismo e realismo, un viaggio tra il surrealismo alieno e l’agghiacciante descrizione del vuoto della vita.

Tramite le azioni di un uomo, di ritorno a casa dopo una dura giornata di lavoro, Ferreri esamina un’intera società, un intero periodo storico (gli anni 60) in tempo reale, seguendo il personaggio per 90 minuti, in tempo reale. Le azioni quotidiane diventano esemplari, veri e propri significanti in cui l’uomo diventa oggetto senza senso, valori o logica.

E’ un film sperimentale anche per l’uso parco della parola, proprio mentre nel post 68 le parole e i parolai abbondavano, in contrasto con l’eccesso delle chiacchiere autoreferenziali dell’epoca. Infatti, il protagonista (un Michel Piccoli perfetto) per 3/4 del film appare in ogni singola inquadratura da solo, quasi esclusivamente in un unico ambiente (l’appartamento che vediamo apparteneva a Mario Schifano, mentre la cucina è quella di Ugo Tognazzi: due amici di Ferreri).

La macchina da presa pedina Michel Piccoli descrivendo ogni azione denotando la desolazione della sua solitudine, la prigionia della vita borghese che lo incarcera e punisce. La pistola trovata avvolta in un vecchio giornale che parla del gangster Dillinger, diventa simbolo e promessa di morte. L’unica fuga è il suicidio? O piuttosto la meta verso Tahiti, dopo aver eliminato la moglie che lo lega alla vita precedente? E’ poi la verità o un sogno?

Ferreri non da speranze. L’illusoria e utopica fuga porta con sé una coazione a ripetere. L’uomo non può trovare la libertà ma solo nuove prigioni mentali in cui rassegnarsi.

Potrebbe piacerti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Email