10 registi morti nel 2018

Il 2018 ha visto la morte degli ultimi grandi autori del cinema italiano. L’Italia è stata la nazione più colpita a livello di importanza, oltre che il cinema africano, dalle morti dell’anno che si è appena concluso. Dopo i primi due nomi, posti in questa ipotetica classifica (ma classifica di cosa? dei rimpianti e dei dolori?) ex aequo, dobbiamo congedarci da autori che hanno spesso cambiato la storia del costume in patria, hanno segnato il cinema della loro nazione rendendolo noto in tutto il mondo. Morti dolorose, terribili che intristiscono tutti.

10 Ringo Lam (1955-2018) È nato a Hong Kong, ma ha studiato alla York University di Toronto. È conosciuto per le sue capacità di girare thriller d’azione dal contenuto dark molto realistico. Tra i suoi più interessanti lavori vi è il film City on Fire. Insieme a John Woo e Tsui Hark appartiene a quella schiera di registi di Hong Kong che si appoggiarono a Jean-Claude Van Damme per sfondare a Hollywood.

10 Penny Marshall (1943-2018) Attrice, poi regista, era sorella del regista Garry Marshall. Iniziò a recitare nel 1968, ma diventò famosa grazie al ruolo di Laverne de Fazio nella sitcom Laverne & Shirley (1976-1983). Passò poi alla regia, dirigendo Whoopi Goldberg in Jumpin’ Jack Flash (1986) e Tom Hanks in Big (1988), mentre nel 1990 realizza Risvegli con Robert De Niro e Robin Williams. Tra gli altri film da lei diretti, Ragazze vincenti, Mezzo professore tra i marines, Uno sguardo dal cielo e I ragazzi della mia vita. Fu sposata dal 1971 al 1981 con il regista Rob Reiner.

9 Lucian Pintilie (1933-2018) Dopo la Rivoluzione romena del 1989 fece carriera in Francia e poi negli Stati Uniti. Ha vinto il Leone d’argento – Gran premio della giuria alla 55ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con Terminus Paradis – Capolinea Paradiso (Terminus Paradis).

 

8 Nicolas Roeg (1928-2018) Nasce a Londra. Direttore della 2^ unità di fotografia di Lawrence d’Arabia (1962) viene chiamato da Roger Corman che lo vuole come direttore della fotografia in La maschera della morte rossa (1964). Seguono poi altri film nei quali cura la fotografia: Dolci vizi al foro (1966) di Richard Lester, Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut, Via dalla pazza folla (1967) di John Schlesinger e Petulia (1968). Lo scrittore Donald Cammell lo chiama a collaborare per un altro progetto; nasce così Sadismo (1970). La distribuzione del film ritarda di due anni a causa di contenuti tabù quali l’uso di droghe e la presenza di comportamenti sessuali devianti: il film è diventato negli anni un cult e Roeg ha modo di sperimentare alcuni elementi di regia che saranno poi un punto costante della sua filmografia: allusioni visive, echi, rimandi, sovrimpressioni e la scelta di un montaggio frenetico ed evocatore. Nel 1973 esce A Venezia… un dicembre rosso shocking (1973). Una caratteristica che accomuna i personaggi principali dei film di Roeg è la loro immersione in un ambiente percepito come alieno puntando l’attenzione sulle relazioni che essi hanno con la maggior parte delle persone; questa caratteristica è portata all’estremo nel suo successivo lavoro L’uomo che cadde sulla Terra (1976), un alieno (interpretato da David Bowie) giunge sulla terra per trovare una soluzione ai problemi che minacciano il suo pianeta ma finisce con l’assorbire i vizi terrestri. Sempre dal mondo della musica sceglie il protagonista di Bad Timing (Il lenzuolo viola, 1980); Art Garfunkel riveste il ruolo di Alex Linden, uno psicoanalista americano a Vienna che si innamora perdutamente di una ragazza, Milena (Theresa Russell poi compagna di Roeg nella vita). Il film gli vale il premio come miglior regista dell’anno ai London Critics Circle Film Award. Eureka (1983), la storia di un cercatore d’oro che dopo la scoperta di un giacimento che lo rende uno degli uomini più ricchi al mondo, è considerato da parte della critica il suo capolavoro, eppure la distribuzione avviene con due anni di ritardo. Insignificance (La donna in bianco, 1985), l’incontro in una stanza d’albergo nella stessa notte di Albert Einstein, Marilyn Monroe, Joe Di Maggio e Joseph McCarthy, finisce subito nell’oblio nonostante il premio speciale per la tecnica ottenuto al festival di Cannes. Seguono poi Aria (1987) e Track 29 (Mille pezzi per un delirio, 1988). Roeg dirige anche alcuni film per la televisione tra cui Cuore di tenebra (1993) tratto dall’omonimo romanzo di Conrad. Il significato dell’opera cinematografica di Roeg è legato innanzitutto all’utilizzo, in sede di montaggio, della tecnica narrativa detta, in Inglese, cut-up (o fishbowling), per cui un testo o una serie di riprese vengono collazionate in modo aleatorio per creare e riarrangiare il materiale d’origine. Conseguenza di questa tecnica, accompagnata per una spiccata sensibilità per l’espressività intrinseca dell’immagine, è l’adozione di linee narrative non convenzionali e di significati suggestivi.

7 Nelson Pereira Dos Santos (1928-2018) Padre del cinéma Nôvo brasiliano, è stato capofila del gruppo che, influenzato dal neorealismo italiano, impresse al cinema nazionale un nuovo modo di guardare la realtà del Paese.  Il primo film da lui diretto, Rio 40 graus, fu, nel 1955, l’antesignano della corrente; nel 1963 Vidas sêcas, sull’odissea di una famiglia contadina del Nordeste, ne fu uno dei vertici artistici che lo resero noto in tutto il mondo. Il mutamento di regime in Brasile lo costrinse a rifugiarsi nella metafora; ma in film come Fome de amor (1968), Um asilo muito louco (1970), O amuletu de Ogun (1974), Tenda dos milagros (1977), le allusioni politiche, per quanto cifrate, appaiono evidenziate da un linguaggio molto immaginativo e da un umorismo nero lucido e pertinente. Tra gli altri film si ricordano Memorias do carcere (1984), Jubiabá (1986), tratto da un romanzo di Jorge Amado e Guerra e Liberdade (1998).

6 Kira Muratova (1934-2018) Cittadina fino al 1991 dell’URSS, prese la cittadinanza ucraina. Nel 1962 sposò il regista ucraino Aleksandr Muratov e si stabilì a Odessa. Il primo lungometraggio, Il nostro onesto pane, fu diretto nel 1964 con il marito. Ebbe successivamente seri problemi con la censura. Brevi incontri del 1968, Lunghi addii del 1971, Alla scoperta della vita del 1979 vennero ritirati, mentre Tra le pietre grigie del 1983 fu rimontato e, non essendo stato più riconosciuto dall’autrice, fu attribuito a un tale Ivan Sidorov. I problemi si risolsero dapprima con l’inizio della perestrojka, e successivamente con la fine della stessa Unione Sovietica. Famoso il film Melodie per organetto (2009).

5 Idrissa Ouedraogo (1954-2018) Si è formato presso l’Institut Africain d’Etudes Cinématographiques di Ouagadougou. Nel 1981 ha intrapreso un percorso impegnativo per diventare regista e ha realizzato molti cortometraggi. In particolare, il video Poko è stato premiato al Fespaco. Dopo essersi specializzato a Kiev, Idrissa si è diplomato presso il prestigioso Institut des hautes études cinématographiques (IDHEC) di Parigi nel 1985. Tra i vari riconoscimenti che questo notevole autore del cinema africano ha ricevuto durante la sua carriera, spicca indubbiamente il Premio speciale della Giuria del Festival di Cannes per Tilaï del 1990 e l’Orso d’Argento al Festival di Berlino del 1993 per Samba Traoré. E’ stato il principale regista africano degli ultimi venti anni.

4 Vittorio Taviani (1929-2018) La sua carriera è inestricabilmente legata al fratello Paolo con cui ha scritto e diretto tutti i film. Autori di un cinema fertile di implicazioni poetiche e politiche, hanno fondato il loro lavoro su uno stretto nesso tra realismo e messinscena, tensione morale e melodramma, ragione e visione, dispiegando il senso del racconto cinematografico in un serrato e continuo confronto tra cinema, letteratura, cronaca, storia, fabulazione. Hanno ricevuto numerosi riconoscimenti: per Padre padrone (1977), la Palma d’oro al Festival di Cannes e nel 1978 un Nastro d’argento; per La notte di San Lorenzo (1982), il Gran premio della giuria al Festival di Cannes, nel 1982-83 un David di Donatello e nel 1983 due Nastri d’argento (per la regia e per la sceneggiatura, insieme a Tonino Guerra e Giuliano G. De Negri); per Kaos (1984), nel 1984-85 un David di Donatello e nel 1985 un Nastro d’argento (per la sceneggiatura, insieme a Guerra); un Leone d’oro alla carriera nel 1986 alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. In Un uomo da bruciare (1962) affidarono a modi di rappresentazione insolitamente rigorosi e originali una severa riflessione politico-sociale ispirata a un sindacalista siciliano ucciso dalla mafia. Terminata la collaborazione con Orsini, ritrovarono la loro vena migliore in Sovversivi (1967), un’indagine  lucida e sottile sul Partito comunista italiano nei giorni dei funerali di Togliatti. Nei film che seguirono, i loro modi realistici, pur restando asciutti e concreti, si aprirono ad ampi spazi visionari, alla luce di sempre nuove ricerche stilistiche. Per ottenere, attraverso l’apologo, una visione corale del mito e della storia, in Sotto il segno dello Scorpione (1969); per analizzare i rapporti fra anarchia e repressione con la mediazione di un personaggio emblematico, in San Michele aveva un gallo (girato nel 1973 ma proiettato solo nel 1975); in Allonsanfàn (1974) che, attraverso l’analisi della crisi e delle contraddizioni del protagonista all’interno della lotta rivoluzionaria durante il dominio austriaco nei giorni della restaurazione, segue un filo ideologico già usato nei film precedenti; fino ad approdare con Padre padrone, apprezzato dalla critica italiana e straniera, a un’opera in cui risulta raggiunto un perfetto equilibrio fra l’immaginario e il reale (sulla scorta del romanzo autobiografico di G. Ledda). Il prato (1979) è invece la storia delle illusioni di un giovane magistrato che si lascia morire dinanzi all’impossibilità di una vita felice accanto alla donna amata. Approfondirono il discorso sul mito, impiegando le strutture tipiche della narrazione di leggende, in La notte di San Lorenzo. Successivamente in Kaos, ispirato ad alcune delle Novelle di Pirandello, hanno rinunciato a ogni residuo realistico per suggerire una sorta di tempo bloccato, privo di identità storica, in cui i personaggi sembrano provenire, più che da una Sicilia arcaica, dalle primitive regioni dei sentimenti e dei vizi umani, vivendo in uno spazio lontanissimo, dominato da conflitti assoluti e forse irrisolvibili. E se una luce solare accompagna il viaggio dei due fratelli carpentieri che in Good morning Babilonia (1987) dalla Toscana arrivano fino al luogo dove va sorgendo Hollywood, al contrario, fili oscuri e inestricabili legano a un passato operoso a cui ha rinunciato il barone fattosi eremita di Il sole anche di notte (1990). In Le affinità elettive (1996), hanno trasferito l’azione dalla Germania alla Toscana e l’hanno spostata cronologicamente in epoca napoleonica, con risultati di grande raffinatezza scenografica, combinando suggestioni rococò, neoclassiche e romantiche. Tu ridi (1998), tratto dai racconti di L. Pirandello Tu ridi e La cattura, è diviso in due episodi (Felice e Sequestri) e costituisce un ritorno al mondo pirandelliano che si arricchisce di risvolti attuali proprio mentre rimanda all’universalità di temi quali la legge morale, la violenza, il sentimento d’amore, il dolore umano. Il loro ultimo grande successo fu Cesare deve morire (2012) che fece vincere ai due autori il premio come miglior film al Festival di Berlino e ai David di Donatello.

3 Ermanno Olmi (1931-2018) Nacque a Bergamo, ma la famiglia, padre ferroviere e madre operaia, si trasferì a Treviglio quando lui era ancora piccolo. Di famiglia profondamente cattolica, Olmi rimane da giovane orfano di padre, morto durante la seconda guerra mondiale. Si trasferisce a Milano per seguire i corsi di recitazione dell’Accademia di Arte Drammatica; contemporaneamente, trova un lavoro da fattorino presso la Edison-Volta. Quando gli viene richiesto di documentare le produzioni industriali attraverso filmati, sfrutta l’occasione per dimostrare il suo talento con la macchina da presa; tra il 1953 e il 1961 realizza decine di documentari, tra i quali La diga sul ghiacciaio, Tre fili fino a Milano (1958) e Un metro è lungo cinque. Nel 1959 debutta sul grande schermo con Il tempo si è fermato, storia imperniata sull’amicizia fra uno studente e il guardiano di una diga e ambientato nell’isolamento e nella solitudine dell’alta montagna. Due anni dopo grazie a Il posto ottiene ottime recensioni da parte della critica. La pellicola si aggiudica il premio della critica alla Mostra di Venezia del 1961. Nel successivo film, I fidanzati (1963) si ritrovano ancora l’attenzione al quotidiano, alle vicende del mondo operaio; il tutto intessuto da una vena intimista. Gira in seguito E venne un uomo (1965); un’attenta biografia di papa Giovanni XXIII, nella quale non si lascia trascinare da scontati agiografismi. Nel 1977 dà alla luce quello che molti considerano il suo capolavoro assoluto, L’albero degli zoccoli (1978), che si aggiudica la Palma d’oro al Festival di Cannes e il Premio César per il miglior film straniero. Il film getta uno sguardo poetico, ma allo stesso tempo realistico, privo di sentimentalismi, al mondo contadino, l’ambiente nel quale Olmi è nato e cresciuto. Nel 1982 a Bassano del Grappa fonda la scuola di cinema Ipotesi Cinema. Sempre nel 1982 dirige Camminacammina, allegoria sulla favola dei Re Magi. Dopo una dura lotta contro una grave malattia, la sindrome di Guillain-Barré, nel Olmi torna a dirigere una pellicola con il claustrofobico Lunga vita alla signora!, premiato al Festival di Venezia con il Leone d’argento. L’anno seguente si aggiudica, invece, il Leone d’oro grazie a La leggenda del santo bevitore, basata sul racconto di Joseph Roth. Oltre al premio della rassegna lagunare, il film vince 4 David di Donatello. Nel 1993, trae Il segreto del bosco vecchio dall’omonimo romanzo di Buzzati; la pellicola vede come protagonista Paolo Villaggio. Nel 1994 dirige un episodio del progetto internazionale Le storie della Bibbia, a cui partecipa anche la Rai, Genesi: La creazione e il diluvio. Nel 2001 dirige Il mestiere delle armi, straordinario film storico in costume presentato con successo al Festival di Cannes 2001 e acclamato a livello internazionale. Il film si aggiudica 9 David di Donatello, tra cui miglior film e miglior regista. Nel 2003 approda in una Cina senza tempo per raccontare epiche vicende di pirati in Cantando dietro i paraventi, anch’esso acclamato dalla critica. Nel 2005 collabora con altri due grandi registi, Abbas Kiarostami e Ken Loach, nel film Tickets. Nel 2007 esce Centochiodi, che Olmi annuncia come il suo ultimo film di finzione. Nel 2008 riceve il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.

2 Milos Forman (1932-2018) Durante l’occupazione nazista, il padre militò nelle file partigiane venendo, in seguito, arrestato dalla Gestapo. Perirà a Buchenwald nel 1944. Stessa sorte aveva subito la madre morta ad Auschwitz nel 1943. A Praga s’iscrisse alla facoltà di Cinematografia; si mise in luce con una serie di ottimi lavori come L’asso di picche (1964), Gli amori di una bionda (1965), che ottenne la nomination all’Oscar come “miglior film straniero” e Al fuoco, pompieri! (1967). Emigrato negli Stati Uniti dopo la primavera di Praga, è divenuto uno dei registi più premiati e acclamati dalla critica nel ventennio 1970-1990, rimanendo legato allo stile europeo di un cinema di contenuto, “contaminato” però dagli elementi spettacolari e avvincenti propri del cinema hollywoodiano. Appena arrivato in America, girò il caustico Taking Off (1971), parabola americana penetrante sull’incomunicabilità tra genitori e figli. Nel 1975 firma Qualcuno volò sul nido del cuculo, a tutt’oggi considerato, insieme con Amadeus, il suo capolavoro: vince 5 premi Oscar, compreso quello al Miglior Film. Su questa scia di denuncia sociale basa i suoi successi come Hair (1979), musical pacifista e contestatore, e Ragtime (1981), sul proibizionismo in cui appare, dopo 20 anni d’assenza, James Cagney. Nel 1984 esce il kolossal Amadeus, sulla vita di Wolfgang Amadeus Mozart. La pellicola ha grande successo e nel 1985 vince quattro Golden Globe e ben otto premi Oscar, inclusi miglior film e miglior regia. Dopo un periodo di lontananza dalla regia, torna, quando Oliver Stone gli affida la direzione di Larry Flynt – Oltre lo scandalo (1996), biografia del magnate del porno che ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Successivamente dirige Man on the Moon (1999), biografia del comico statunitense Andy Kaufman. Il 2006 è l’anno de L’ultimo inquisitore, con Natalie Portman e Javier Bardem, che si ispira alla figura del pittore  Goya. E’ costretto ad abbandonare la regia a causa di una degenerazione maculare del suo occhio destro. La sua condizione non lo porta ad abbandonare completamente il mondo cinematografico, per il quale continua a impegnarsi nella veste di attore. La sua ultima fatica recitativa lo vede al fianco di Catherine Deneuve nel film Les bien-aimés (il titolo internazionale è The Beloved).

1 Bernardo Bertolucci (1941-2018) Il suo percorso creativo è passato dal cinema della soggettività degli anni 60 al cinema d’autore di grande produzione internazionale, mantenendo sempre uno specifico impegno di stile e una forza espressiva personale. E poiché nelle sue opere la soggettività sa misurarsi con il profondo, con le scene psichiche e anche con l’orizzonte sociale, egli ha saputo evolversi da un cinema del soggetto verso un cinema di interpretazione della Storia, da una dimensione lirica verso l’affresco. Interiorità e oggettività, mondo della psiche e storicità si sono così intrecciati e succeduti nei suoi film, mentre la sua abilità di metteur en scène gli ha consentito di compiere progressive opzioni tecnico-formali, di costruire stilemi, modi di ripresa e di montaggio non solo innovativi e complessi, ma programmati per realizzare un progetto cinematografico rigoroso. Il suo percorso creativo si può riassumere come un passaggio dal cinema come scrittura al cinema come figurazione, dalla narrazione della soggettività alla configurazione visiva del mondo, dalla caméra-stylo al grande disegno spettacolare che gli è valso il trionfo di The last emperor (1987; L’ultimo imperatore) sancito dalla vittoria dei nove Oscar (tra cui quello alla regia). Questo allargamento del progetto registico riflette non solo la volontà di sperimentare le possibilità di evocazione del cinema, ma anche l’impegno a presentare la complessità e l’eterogeneità del mondo, mostrato ora come ambiguità ora come sistema strutturato. La sua vita fin dall’inizio è stata radicata in un ambiente culturale privilegiato e segnato dal rapporto forte con il padre, Attilio, poeta affermato. Dal 1952 a Roma ebbe la possibilità di entrare in contatto con Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, e quindi esordì giovanissimo nella poesia e nel cinema. Il suo primo film, La commare secca (1962), tratto da un soggetto di Pasolini, descrive l’ambiente sottoproletario delle borgate romane e ha una struttura narrativa complessa in quanto propone la storia della morte di una prostituta attraverso i racconti di diversi personaggi. Prima della rivoluzione (1964) è il film più significativo della nuova generazione di cineasti italiani degli anni Sessanta, in cui precipitano e si fondono componenti immaginarie e stilistiche diverse. Gli umori soggettivi si intrecciano con l’orizzonte sociale e i modi della vita di provincia, mentre la ricerca dell’autenticità si mescola alle istanze politiche. Il protagonista è un soggetto problematico, capace di raccogliere in sé gli interrogativi e le questioni personali di un giovane di quegli anni. La sua spinta verso l’autenticità è frenata da remore, insoddisfazioni e paure, ma è pur sempre un interrogarsi che riprende la lezione dei grandi romanzi del soggetto della tradizione europea ottocentesca. Il film è una libera sperimentazione sull’incertezza dell’essere, mentre la qualità della messa in scena è radicata nello stile della Nouvelle vague. Partner (1968), ispirato a Il sosia di Dostoevskij, è una riflessione sulle contraddizioni dell’intellettuale. Fu in quello stesso anno che collaborò alla stesura della sceneggiatura di C’era una volta il West di Sergio Leone, mentre nel 1970 realizzò La strategia del ragno, ispirato a un racconto di Borges, attraverso cui fece ritorno allo spazio conosciuto della provincia emiliana, interrogandosi sui temi dell’antifascismo, della memoria e della soggettività. Insieme il film è attraversato da un tessuto di citazioni che evocano non solo il mondo del cinema (il paese si chiama Tara, come la tenuta di Via col vento), ma soprattutto modelli iconografici e quadri significativi. Con Il conformista (1970) riprese la varietà compositiva dell’opera precedente per rielaborarla in forme più coerenti e rigorose. Tratto da un romanzo di Moravia, il film è una ricostruzione storica degli anni del fascismo e una ricerca su un uomo senza qualità, che spinge le anomalie segrete dell’essere normale sino all’aberrazione dell’omicidio politico. Il protagonista è tutt’altro che un personaggio unidimensionale: le relazioni che vengono sviluppate nel film sono segnate dall’ambiguità e a volte dall’enigmaticità e paiono mescolare inestricabilmente bene e male, negatività ed equilibrio, ossessioni soggettive e coazioni storico-politiche. Il lavoro di messa in scena di Bertolucci sembra concretarsi nella figurazione dell’immagine e nell’orchestrazione della luce. Nelle sequenze ambientate a Parigi, con Vittorio Storaro, autore della fotografia, delineò giochi di luminosità all’interno dell’inquadratura intrecciando luci filtrate, neri, controluce sino a creare veri e propri mosaici visivi. Con Il conformista aveva avuto inizio la collaborazione con il montatore Kim Arcalli, che proseguì con Ultimo tango a Parigi. In quest’opera ‒ che ebbe il privilegio di fare scandalo e ottenne un grande successo internazionale ‒ la ricerca sul profondo e sull’ambiguità dell’eros riprende le mitologie e le ossessioni dell’erotismo di Bataille. Sull’onda del successo conseguito poté realizzare l’ampio affresco in due episodi, Novecento (1976), dedicato alla storia dell’Italia dalla fine dell’Ottocento alla caduta del fascismo, e articolato attorno al passaggio dal mondo contadino alla società industriale e all’avvento e al dissolversi della dittatura mussoliniana. Costruito come un grande disegno in cui le storie private si incontrano con la Storia, il film risente di un certo schematismo ideologico. I due film successivi (La luna, 1979, e La tragedia di un uomo ridicolo, 1981) riprendono problematiche contemporanee in difficili percorsi di avvicinamento all’ambiguità e alla vischiosità degli anni Settanta e Ottanta. Ma di fronte all’opacità del mondo italiano, Bertolucci si è trasformato in un autore di produzioni internazionali ed è diventato una figura sicuramente non ordinaria nell’universo del cinema italiano. Ha puntato infatti a costruire grandi spettacoli per il grande pubblico, facendo insieme del marchio d’autore e dello stile una garanzia di qualità e uno strumento di vendibilità. È stato quindi l’interprete della storia della Cina del Novecento (The last emperor), l’evocatore della marginalità dell’intellettualismo nomade in Marocco (1990, Il tè nel deserto, dal romanzo di Bowles), l’osservatore delle mitologie del buddismo (1993, Piccolo Buddha). È questa la cosiddetta trilogia dell’altrove, che ha raggiunto una complessità e una figurazione rigorosa ed estremamente inventiva soprattutto in The last emperor. Qui la ricerca storica si integra con un raffinato processo di invenzione del visibile, caratterizzato dalla configurazione di un sofisticato cromatismo. Negli ultimi film è ritornato all’orizzonte italiano e a dimensioni produttive meno ricche, per inseguire la formazione dell’identità sessuale di un’adolescente o le difficili, ma non impossibili relazioni interrazziali. Tematiche affrontate rispettivamente in Stealing beauty (1996; Io ballo da sola) e L’assedio (1999), in cui la sapienza registica si conferma in grado di misurarsi anche con eventi minimali. Gli ultimi anni sono stati segnati dalla malattia che lo ha portato alla sedia a rotelle.

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