10 registi morti giovani

Parliamo anche di registi morti in età molto giovane. Con loro abbiamo perso degli artisti eccezionali che ancora moltissimo potevano dare all’arte cinematografica. Molti hanno girato capolavori assoluti ancora oggi citati in tutti i manuali cinematografici, altri hanno significato molto per la cinematografia di un continente aprendo strade che fino ad allora non erano state percorse. Gathak è stato essenziale in India, Farroughzad è stata fondamentale per il cinema iraniano e per la figura della donna nell’universo mediorentiale (ancora di più se si osserva l’attuale contingenza storica), altri ancora hanno svelato mondi sconosciuti all’autoreferenziale occidente.

10. Ritwhik Gathak (Dacca, 4/11/1925 – Calcutta, 6/2/1976) Indiano. La sua personalità vulcanica e genialmente eclettica è ben riflessa dal suo cinema personale, scabro, dominato da una continua tensione sociale e politica e caratterizzato dall’adesione dichiarata a quella tradizione epica e melodrammatica così radicata nella cultura indiana, ma al tempo stesso sempre incline alla sperimentazione, tecnica ed estetica. Un cinema ostinatamente indipendente, anche sul piano produttivo, mai accondiscendente verso le esigenze del mercato interno o internazionale. Tutti elementi, questi, che lo posero agli antipodi del cinema, sempre nitido e accurato dal punto di vista formale e narrativo, di Satyajit Ray. Con il suo cinema ha combattuto e condannato la disumana divisione del Bengala da parte di Pakistan ed India, giocata sulla pelle di milioni di esseri umani sradicati e condannati alla povertà ed alla disperazione. Solo dopo la sua morte precoce, la riscoperta critica della sua opera, lo ha consacrato come una delle voci più importanti della cinematografia indiana, anche se il suo corpus filmico è discontinuo: otto lungometraggi, una decina tra cortometraggi e documentari, e una lunga lista di progetti rimasti incompiuti. Esordì con Nagarik (1952, Un cittadino), che racconta le vicende di una famiglia degli slums di Calcutta. Anche a causa della potente critica alle convenzioni sociali, il film (animato da uno spirito materialista e rivoluzionario, come tutti i suoi film successivi influenzati dal cinema sovietico) non riuscì a ottenere una distribuzione commerciale: sarebbe infatti uscito nelle sale soltanto dopo la scomparsa del regista.  Dopo Bari theke paliye (1959, Il fuggitivo) che racconta la fuga da casa di un adolescente in cerca di avventura (qui sperimentò l’uso, innovativo per il cinema indiano del tempo, del grandangolo e delle inquadrature da terra), i primi anni Sessanta scandirono in sequenza lo sviluppo della maturità stilistica e politica di Gathak con una trilogia dedicata alla riflessione critica sulle terribili conseguenze socioeconomiche della divisione dell’impero indiano del 1947. Essa comprende Meghe dhaka tara (1960, La stella coperta da una nuvola) e Subarna Rekha (1962, Il fiume Subarna), oltre che Komal gandhar (1961, Mi bemolle). Fu il totale insuccesso commerciale di Subarna Rekha a precludergli per molti anni le risorse finanziarie per ulteriori progetti. Durante le riprese di Titash ekti nadir naam (1973, Un fiume chiamato Titash), ispirato a un romanzo epico che ha per protagonista una comunità di pescatori, lo colse la malattia che lo avrebbe poi portato alla morte precoce, aggiungendo a questa sua opera un ulteriore velo di malinconia. Diresse ancora un film, il più impietosamente e impudicamente autobiografico, Jukti, takko aar gappo (1974, Ragionare, discutere e chiacchierare), un triste ma visionario testamento di un regista ‘maledetto’ che seppe sfidare ogni convenzione sociale ed estetica, nell’arte come nella vita.

 

9. Derek Jarman  (Londra, 31.1.1942 – Londra 19.2.1994). Autore di alcuni cortometraggi, nel 1976 ha diretto il suo primo lungometraggio, Sebastiane (1976), opera recitata interamente in latino. Lo stile sobrio, il linguaggio sperimentale, spesso influenzato dalla pittura, la trattazione della tematica omosessuale sono stati al centro dei successivi Caravaggio (1986), caratterizzato da un evidente taglio figurativo, The last of England (1987), un episodio del film collettivo Aria (1987), War requiem (1989), The garden (1990). Ha ottenuto riconoscimenti critici con Edward II (1991), film che si sofferma maggiormente sulla vita privata e politica del personaggio piuttosto che sulla ricostruzione storica. Ormai colpito dall’AIDS che lo porterà alla morte, ha realizzato Wittgenstein (1993), personale rilettura della vita del filosofo, e Blue (1993), uno struggente testamento affidato al colore blu che domina sullo schermo, realizzato dal regista dopo essere diventato completamente cieco. Purtroppo la copia che segue non è di alta qualità nell’immagine.

Sempre al nono posto, a pari merito, c’è Djbril Diop Mambety(Dakar, 1945 – Parigi, 23/7/1998)  Nonostante i pochi film realizzati (due lungometraggi, tre mediometraggi e due cortometraggi)  ha contribuito, in maniera sostanziale, all’evoluzione del cinema africano, ponendosi come il più rappresentativo e originale cineasta di tutta la storia del cinema dell’Africa subsahariana. Di famiglia musulmana, compì studi teatrali nella capitale senegalese e recitò sperimentando forme di rappresentazione nella Troupe Nationale Daniel Sorano. Il suo esordio nella regia risale al 1968 con il cortometraggio Contras city, nel quale già compaiono gli elementi che avrebbero caratterizzato la sua  filmografia: l’umorismo e il grottesco, la sensibilità per le persone che vivono ai margini, la critica alla globalizzazione, la destrutturazione dei percorsi tradizionali della narrazione. Contras city, definito il primo film comico africano, ispirato a uno stilismo graffiante ed esilarante, è un viaggio soggettivo nella varietà dei quartieri della capitale senegalese, per esplorare la propria storia e il peso delle influenze occidentali sui costumi. Il successivo Badou Boy (1969) mette in scena, quasi come in una comica muta, l’inseguimento per le strade di Dakar di un ragazzino furbo da parte di un poliziotto grasso. Una coppia (il guardiano di mucche Mory e Anta, una studentessa irrequieta dal corpo androgino) che sogna di imbarcarsi su una nave diretta in Francia, è invece la protagonista di Toukibouki (1973), suo primo lungometraggio e capolavoro, nel quale la ricerca estetica tocca i livelli più sperimentali e innovativi. Il film fu montato a Roma, dove il regista venne arrestato per aver partecipato a una manifestazione antirazzista e liberato grazie all’intervento di amici e colleghi come Bernardo Bertolucci e Sophia Loren. Dopo questa drammatica esperienza trascorsero sedici anni prima del ritorno al cinema con Parlons grand-mère (1989), cortometraggio girato sul set di Yaaba (1989) di Idrissa Ouedraogo, esemplare riconferma del suo talento. Hyènes (1992) è tratto da  un dramma di Dürrenmatt. La storia è ambientata nella nativa Colobane e, con un tagliente umorismo, segue le vicende dell’anziana Linguère Ramatou, rientrata al villaggio arricchita, per elargire ogni sorta di beni a patto che il suo vecchio amante, che l’ha tradita, venga ucciso. L’ultima parte della filmografia di Diop Mambety è costituita dalla cosiddetta Trilogia della piccola gente, rimasta però incompiuta per la scomparsa prematura del regista. L’autore riuscì a realizzare solo i primi due capitoli, Le franc (1994), storia di un musicista povero che potrebbe risolvere i suoi problemi vincendo la lotteria, e La petite vendeuse du Soleil (1999, uscito postumo), in cui una bambina vende ogni giorno per le strade di Dakar il quotidiano “Le Soleil”.

 

8. Glauber Rocha (Vitória da Conquista, 14.3.1939 – Rio de Janeiro, 22.8.1981) E’ stato tra i più noti e rappresentativi giovani registi del “cinema nôvo” brasiliano. Dopo aver fatto il giornalista cinematografico realizza Barravento (1961) che rappresentò un esordio assai significativo. Nel 1963 girò Deus e o diabo na terra do sol (Il dio nero e il diavolo biondo, 1964) che si propone come un’indicazione esemplare di giovanile freschezza e barbara violenza di immagini, qualità che in misure diverse si ritrovano nelle opere successive: Terra em transe (1967); O dragão da maldade contra o santo guerreiro (Antonio das Mortes, 1969; premio per la regia al Festival di Cannes); Der leone have sept cabezas (Il leone a sette teste, 1970); A idade da terra (1980). Collabora con Carmelo Bene, lavora instancabilmente per rivoluzionare il cinema sudamericano, lottando contro ogni forma di dittatura e di potere, fedele alla sua forte convinzione politica che gli costa anche l’esilio. E’ stato stroncato da una polmonite a soli 42 anni.

7. Yilmaz Guney nato Yılmaz Pütün (Adana, 1.4.1937 – Parigi, 9.9.1984) Come attore si conquistò una grande popolarità negli anni Sessanta per imporsi poi anche come regista e produttore con film che segnarono la storia del cinema turco, testimoniando la situazione di un Paese sconvolto dai colpi di Stato militari e da profonde trasformazioni sociali. Il suo cinema, votato al realismo e alla critica radicale, ma sempre capace di umorismo e di slanci lirici, fu duramente osteggiato dalle autorità politiche del suo Paese, che gli inflissero, in più riprese, circa cento anni di carcere (in gran parte per reati di opinione), contribuendo a trasformarlo in una figura leggendaria. Orgoglioso delle sue origini, ma estraneo alle rivendicazioni etnico-religiose e alle derive nazionaliste e separatiste, pose al centro della sua opera la specificità curda nella lotta di classe, nello scontro tra i sessi e i poteri e nella dialettica tra individuo e comunità.  Nel 1961 fu condannato a diciotto mesi di carcere per la sua militanza politica nel partito comunista turco. Uscito di prigione, divenne l’attore più popolare del cinema turco ‒ soprannominato “il re brutto”. Nel 1966 esordì come regista e due anni dopo fondò la casa di produzione Güney Filmcilik, con cui avrebbe realizzato la sua idea di cinema politico, rivolto al grande pubblico ma capace di raccontare le ingiustizie e i bisogni repressi che attraversavano il Paese. In Seyit Han (1968), storia di un uomo che torna nel villaggio dell’Anatolia dov’era cresciuto, affrontò la piaga sociale dei matrimoni combinati. Le tristi condizioni in cui versava il sottoproletariato cittadino stanno invece al centro di Umut (1970, Speranza). Sempre più inviso al governo turco, prima di essere nuovamente arrestato, realizzò Ağit (1971, Elegia), film di grande impatto visivo, ambientato nuovamente in Anatolia, dove, braccata, si nasconde una banda di contrabbandieri, e Baba (1971, Papà), paradossale vicenda di un padre che, pur di salvare la propria famiglia dalla miseria, accetta di assumersi la colpa di un assassinio e di passare dieci anni in carcere. Tornato nuovamente in libertà, Guney dimostrò di aver conservato intatte combattività politica e creatività artistica con Arkadaş (1974, L’amico). Durante la lavorazione di Zavallılar (I poveretti), film portato a termine nel 1975, arrivò la terza e più grave condanna: diciotto anni di carcere per l’omicidio, mai provato, di un magistrato durante una rissa. Nonostante le difficili condizioni di vita  diresse dalla cella Yol, il suo capolavoro, guidando le riprese dell’amico Gören (che firmerà la regia), con il beneplacito delle stesse autorità, cui il lavoro venne presentato come un documentario sulla situazione delle carceri turche. Il risultato del montaggio, curato dallo stesso Guney fuggito nel frattempo dal carcere e dal Paese, fu ben diverso: la storia di cinque detenuti che lasciano la prigione per una settimana di permesso, al termine della quale l’intera società turca appare come un immenso carcere. Il film vinse il Festival di Cannes del 1982, mentre le autorità turche gli toglievano la cittadinanza dopo aver aggiunto venti anni di carcere, confiscato tutte le sue proprietà e vietato le sue opere (proibite in Turchia fino al 1999). Durante l’esilio diresse Le mur (1983; La rivolta). Muore a 47 anni per un cancro allo stomaco.

 
6. Forough Farrokhzad (Teheran, 5.1.1935 – Tafresh, 13 febbraio 1967)  E’ stata una grande poetessa iraniana. Ha sfidato le autorità religiose e i letterati conservatori, rivelando sensazioni e sentimenti della situazione femminile nella società iraniana degli anni cinquanta-sessanta, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della letteratura persiana del ‘900. Il ruolo della donna nel matrimonio convenzionale, le libertà prevaricanti del ruolo di madre e donna libera, il rapporto conflittuale dell’essere donna e non poter godere del proprio corpo liberamente, le diedero la forza di combattere ma le impedirono di godere di una vita normale. Del 1963 è il suo unico documentario “Khaneh siah ast”(The House is Black), che mostra la situazione dei lebbrosi iraniani e vinse premi in tutto il mondo. E’ la sua unica regia; eppure appare ancora come sconvolgente per la sua modernità, per l’approccio alla materia filmica del documentario e dell’immagine. Scompare a soli 32 anni in seguito ad un incidente stradale. Fondamentale per la storia del cinema femminile in Asia.

5. Rainer Werner Fassbinder (Bad Wörishofen, 31.5.1945 – Monaco di Baviera, 10.6.1982) Dopo aver ricevuto nei primi anni di scuola un’educazione basata sui principi liberali di Steiner, prosegue gli studi ad Augusta e poi a Monaco. Nel 1965 inizia la carriera drammaturgica scrivendo per il teatro Come gocce su pietre roventi, recentemente diventato film con Ozon. Rapidamente diventa  uno dei maggiori esponenti delle avanguardie teatrali tedesche. Dopo la realizzazione del primo lungometraggio nel 1969, Fassbinder punta tutti i suoi sforzi sul cinema, ma manterrà comunque sempre un interesse vivo per il teatro fino alla sua morte. L’esordio alla regia è nel 1969 è con L’amore è più freddo della morte. Ancora in quell’anno realizza Lo straniero, Dei della peste e Perché il signor R. è colto da follia improvvisa? mostrando quella bulimia lavorativa che lo ha sempre contraddistinto. In mezzo a tutto questo fervore creativo, continua comunque a comparire come attore in film di Reinhard Hauff e Volker Schlöndorff. Continua nel 1972 la sua imponente produzione: Le lacrime amare di Petra von Kant (presentato a giugno al Festival di Berlino), Selvaggina di passo, Otto ore non sono un giorno, La libertà di Brema, Effi Briest. Poi ancora nel 1973 gira Il mondo sul filo, Nora Helmer, MarthaLa paura mangia l’anima. Nel 1975 gira Il viaggio in cielo di mamma Kusters, Paura della paura, Nessuna festa per la morte del cane di Satana e Voglio solo che voi mi amiate. Nel 1976 Roulette cineseBolwieser. Nel 1977 gira  Donne a New York, Despair (il suo primo film con cast internazionale e girato in lingua inglese). Nell’ottobre partecipa alla realizzazione del film a episodi Germania in autunno, presentato  al Festival di Berlino dell’anno successivo. Tra gennaio e marzo dell’anno successivo gira il suo film più celebrato, Il matrimonio di Maria Braun. Tra luglio e agosto torna ancora dietro la macchina da presa per dirigere Un anno con 13 lune, mentre a dicembre inizia la lavorazione di La terza generazione. Nel 1979 a giugno inizia a lavorare al telefilm Berlin Alexanderplatz, che lo impegnerà per quasi un anno. Gira ancora Lili Marleen che presenta al Festival di Venezia. Nel 1981 gira Lola e Veronika Voss. Nel 1982 Fassbinder interpreta Kamikaze 1989 per la regia di Wolf Gremm e di seguito gira Querelle de Brest, che sarà il suo ultimo film. Muore per overdose, probabilmente un suicidio, nella sua casa di Monaco, a soli 37 anni.

 
4. PierPaolo Pasolini (Bologna, 5.3.1922 – Lido di Ostia, 2.11.1975)  Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza a Porzus, fino al 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si trasferì a Roma. Scrittore, regista e giornalista, fu impegnato a testimoniare e a propagandare la sua libertà intellettuale assoluta, pagando questo con l’assassinio avvenuto la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia. Nel cinema esordì come sceneggiatore ( Soldati, La donna del fiume; Fellini, Le notti di Cabiria; Bolognini, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio, La giornata balorda; Bertolucci, La commare secca). Pasolini dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa. Il linguaggio del suo cinema approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio al suo personale “cinema di poesia”. Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl’impegni drammatici e linguistici dei film della “trilogia della vita” (o, come altri l’hanno definita, “dell’Eros”), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L’ultimo film, uscito postumo,  è stato Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), reinterpretazione urticante del libro omonimo di Sade. Grandissimi sono stati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d’inchiesta Comizi d’amore (1965), indagine sulla sessualità nell’Italia dei primi anni Sessanta, condotta insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola è Uccellacci e uccellini (1966), magnificata dall’interpretazione di Totò.

 
3. Jean Vigo (Parigi, 26.4.1905 – Parigi, 15.10.1934) Figlio dell’anarchico basco Eugène-Bonaventure de Vigo, noto come Miguel Almereyda, morto in carcere nel 1917, dopo anni di collegio si trasferì a Parigi, dove fu influenzato dal surrealismo e dalle teorie di D. Vertov. Autore di corto e mediometraggi (À propos de Nice, 1930; Taris ou la natation, 1931; Zéro de conduite, 1933), e di un solo lungometraggio (L’Atalante, 1934), fu stroncato precocemente dalla tubercolosi. La sua opera, ricchissima di intuizioni estetiche e narrative, di finezza, umorismo e sensibilità, è segnata da una grande capacità di rappresentazione onirica e poetica del mondo. Per quanto poche, le sue opere sono fondamentali per gran parte del cinema francese e mondiale. Genio.

2. Krysztof Kieslowski (Varsavia, 27.6.1941 – Varsavia, 13.3.1996) Dopo gli studi in tecniche teatrali e il diploma in cinema, si dedicò a un’intensa attività di documentarista ed esordì nel lungometraggio di finzione con Personel (“Il personale“, 1975). Si segnalò all’attenzione della critica con Krókti film o zabijaniu (Breve film sull’uccidere, 1987), impressionante ricostruzione di un fatto di cronaca, e con Krótki film o milości (Non desiderare la donna d’altri, 1988), asciutta parabola sulla solitudine e sul bisogno d’amore. Lievemente modificati, essi costituiscono due dei dieci episodî del televisivo Dekalog (Il decalogo, 1988-89), con cui Kieslowski si è fatto testimone di una contemporaneità senza felicità né speranza. Tra gli altri film si ricordano: Przypadek (Destino cieco, 1981); Bez końca (“Senza fine“, 1984). I suoi più grandi successi e, forse, i suoi assoluti capolavori sono stati  La double vie de Véronique (1991) e la trilogia sui principi portanti dell’umanità: libertà, uguaglianza e fratellanza, riferiti ai colori della bandiera francese. Trois couleurs: Bleu (Film blu, 1993), Trois couleurs: Blanc (Film bianco, 1994), Trois couleurs: Rouge (Film rosso, 1994) sono tra i più grandi film degli ultimi vent’anni. La sua ricerca dei valori profondi dell’uomo, dei significati dell’esistenza, costruiti con il suo fido cosceneggiatore Piesewicz, rappresentano una pietra miliare nel cinema per la coerenza stilistica, per il valore morale.

1. Friedrich Wilhelm Murnau  (Bielefeld, 28.12.1888 – Santa Barbara, 11.3.1931) Dopo aver fatto l’attore nella compagnia di Reinhardt,compiendo studî di storia, filosofia e arte, esordì come regista cinematografico con Der Knabe in Blau (1919). La sua carriera è costellata di opere straordinarie, capolavori sfornati con regolarità impressionante. Firmò con Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922) il suo primo capolavoro; il film, per il suo straordinario fascino figurativo e per il cupo pessimismo che lo pervade, è una delle opere più rappresentative dell’espressionismo tedesco. Ad esso seguirono Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924), che gli diede rinomanza internazionale per la capacità di Murnau di fondere sceneggiatura e grandissima inventiva narrativa e iconografica; Tartüff (1926) e Faust (1926) eccezionali versioni cinematografiche di opere letterarie. Murnau può vantare la quasi unica capacità di rendere per immagini i complesi meccanismi narrativi e psicologici della letteratura per cui si può dire che abbia rivoluzionato il linguaggio cinematografico. Trasferitosi negli USA (1926), realizza il notevole Sunrise (Aurora, 1927), suo capolavoro assoluto. Successivamente, la complessità delle sue opere gli creò problemi con le major che resero difficile realizzare  Four devils (1929) e City girl (o Our daily bread, 1930). Nel successivo Tabu(1931), realizzato in collaborazione con il documentarista Robert Flaherty e in totale autonomia dall’industria cinematografica, trova nuova espressione uno dei temi prediletti di Murnau: il conflitto fra pulsioni e condizionamenti sociali, in cui le ragioni dell’individuo sono destinate a un inevitabile scacco. Artista tra i più grandi del cinema muto, contribuì tanto allo sviluppo degli effetti speciali quanto al perfezionamento delle tecniche narrative. Morì in un incidente d’auto mentre alla guida del veicolo c’era il quattordicenne filippino Garcia Stevenson, valletto e amante di Murnau.  Greta Garbo fu tra le poche stelle del cinema a prendere parte alle sue esequie, poiché la fama di omosessuale  gli aveva creato intorno molta solitudine o addirittura disprezzo. L’attrice svedese, che invece nutriva per quel cineasta una sincera ammirazione, fece fare un calco in gesso del volto del defunto.

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2 Responses

  1. giulio scrive:

    gravissima assenza quella di jean vigo gravissima

     

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